Lettera da Kabul
Un europarlamentare in Afghanistan dove la società civile è negata e l’Isaf sgradita. Due corrispondenze dell'europarlamentare V. Agnoletto da Kabul. Tanto per sapere che vi sono collettivi che stanno lottando per un'altra società. Contrastati da Karzai e ignorati dall'Europa.
Arrivo a Kabul alle 11 di mattina dopo 24 ore di viaggo via Mosca e Baku. Il tempo è bello, la neve dei giorni scorsi è rimasta appiccicata ovunque,mescolandosi al fango nel passaggio ininterrotto di carretti, taxi,motorini. Non sento tensione attorno, anche se la situzione non è facile. Se mi muovessi con le truppe Isaf non sarei gradito da nessuno, questo è evidente. Me lo ripete chiunque si avvicini. Sono a Kabul su invito del “Coordinamento italiano di solidarietà con le donne afgane”e ospite di Rawa, l’associazione delle donne rivoluzionarie che vorrebbe festeggiare il suo trentesimo anniversario di difficile vita.
Pur essendo un’associazione islamica - come tutto del resto, qui – Rawa ha una concezione laica della politica e si batte per il rispetto dei diritti umani, di genere e per la democrazia. Sono a Kabul da europarlamentare per loro, per aiutarle a garantirsi quegli spazi di democrazia e di diritto alla parola, sacri, e a loro negati. La prima sorpresa è stata pessima. L’iniziativa di Rawa è stata vietata, sono ancora considerate un’associazione illegale. Stiamo lavorando perché si possano riunire entro un paio di giorni. Ed è il primo paradosso afgano in cui mi imbatto. L’associazione che si è battuta contro l’invasione sovietica prima e contro i talebani poi, l’esempio dell’esistenza di una società civile nel paese, è di nuovo discriminata dal governo attuale del paese.
Le 200 militanti a tempo pieno dell’associazione e le oltre 2mila attiviste, vivono nell’illegalità (alcune in vera clandestinità), rischiando ogni giorno. Nonostante questo, riescono a incidere. Basta visitare il loro orfanotrofio per le piccole vittime dell’eterna guerra afgana a Kabul (ne hanno altri tre in Pakistan): 60 bambini e bambine che vanno a scuola e vivono insieme, ricevendo un’educazione anti-fondamentalista e centrata sui valori democratici. Qui, come nelle altre strutture di Rawa, vengono formate le ragazze che poi diventano i “quadri politici” nei villaggi di questa nascente - e illegale - società civile.
Perchè l’Occidente tace su questa speranza negata, questa violazione inaccettabile?
Il secondo paradosso afgano ne discende, purtroppo. Più passa il tempo, più la maggioranza della popolazione, anche a Kabul, scivola nel “tanto peggio” talebano. Anche chi non li vuole, non li sostiene, ne ha paura, ritiene che lo stallo attuale a questo punto sia troppo insicuro e rischioso. E lo stallo che provoca insicurezza sono le truppe straniere. Le stragi degli Usa degli ultimi giorni, l’offensiva nel Sud del paese e la distruzione dei campi d’oppio lavorano in una sola direzione. Spingere la popolazione nelle braccia del talebani. Anche perché a chi si dovrebbero rivolgere? Qual è l’alternativa? Le mie accompagnatrici in quattro minuti hanno sciorinato un elenco di 20 persone al governo o in Parlamento che sono signori della guerra con i loro eserciti e i loro traffici.
E mentre Rawa chiede nel vuoto occidentale di costituire un tribunale penale internazionale dei crimini di guerra, il presidente Karzai si appresta a firmare un’amnistia che significa un colpo di spugna su vent’anni di violenze e guerra civile. Se a questo si aggiungono le voci insistenti di trattative tra diversi signori della guerra pronti ad abbandonare Karzai al momento opportuno e passare coi talebani, si può facilmente comprendere su quali basi si poggia l’intervento internazionale che sembra essere ancora all’anno zero della politica.
Il terzo paradosso afgano, riguarda proprio la missione Isaf. Le donne di Rawa, in sostanza, dicono che gli occupanti se ne devono andare, ma che il vuoto dopo di loro sarebbe un disastro. Per questo chiedono sia presente nel paese una forza Onu di peace keeping, completamente diversa negli obiettivi, nel comando e nel modus operandi da quella di peace enforcing guidata dalla Nato. Questa forza Onu dovrebbe essere formata da nazioni che non partecipano alla missione e che non hanno interessi diretti nell’area (dall’Arabia Saudita al Pakistan) e il suo compito dovrebbe essere quello del dialogo e della riconciliazione.
L’imbuto senza uscita in cui si sta infilando la missione è evidente da una questione discussa in Italia, quella dell’oppio. Anche ipotizzando di comprare al prezzo di mercato (di 120 dollari al chilo) l’oppio afgano, come fare in modo che i contadini non rimangano ostaggio dei narcotrafficanti e dei signori della guerra? Il percorso appare possibile, anche se più lungo di quanto immaginiamo, ma a patto che succeda qualcosa di politico nel paese.
Primo perchè l’ennesimo paradosso vuole che la Costituzione afgana vieti la coltivazione dell’oppio, secondo perchè sono necessari istituti democratici (e non solo soldi) per riuscirci. Detto in maniera secca, la questione oppio non è complementare alla missione Nato/Isaf, ma è antitetica. Perché solo la costruzione di un tessuto sociale, politico ed economico può garantire la fuoriuscita dell’oppio dal mercato della guerra. Su questo le posizioni di Rawa e del capo missione inglese per la lotta alla droga sono assolutamente opposte nei mezzi ma convergenti nell’analisi. Il responsabile inglese vorrebbe “far pulizia”, vincendo la guerra, e poi discutere del resto, Rawa vorrebbe che fosse un’occasione sul tavolo della rinascita del paese. A far da distinguo c’è sempre la guerra da una parte e la sfida della società civile e della democrazia dall’altra. Le due cose, insieme, qui non sembrano proprio andare.
Diario di viaggio da Kabul - Dicono: ”La Nato è come l’Urss”
Kabul - Lo striscione dice: “Democrazia, secolarismo, diritti delle donne”; nella sala stracolma i cartelli in inglese dicono “stop al fondamentalismo”. Alla festa delle donne di Rawa sono arrivate in più di duemila. Non ci stanno tutte, si riversano fuori strada, guardate a vista dalla polizia. Nel silenzio assoluto, Sposhmay (Luna) con la freschezza dei suoi vent’anni, legge uno dopo l’altro tutti i nomi dei criminali di guerra seduti in Parlamento, pronuncia una condanna senza appello del governo afgano che appoggia i gruppi fondamentalisti, accusa il Pakistan d’ingerenza negli affari del paese (gran parte dei deputati sarebbero pagati direttamente da Islamabad), lancia un appello di solidarietà con le donne iraniane incarcerate a Teheran e chiede agli intellettuali di riprendere la parola «di non farsi intimidire».
«So che con questo discorso rischio la vita ma non abbiamo più alternative, non possiamo più tacere se vogliamo davvero vivere». Per il pezzo più determinato della società civile afgana, la partita più importante si chiama “Legge per la riconciliazione nazionale”, l’amnistia che Karzai vuole concedere a tutti i signori della guerra.
«Sappia Karzai che per noi rimangono criminali di guerra e nessuna legge può cancellarlo», dicono le donne di Rawa, ma non sono le uniche preoccupate. La rappresentante dell’Unione europea, che incontriamo nel pomeriggio, è ugualmente preoccupata: l’amnistia porrebbe l’Afghanistan fuori dalla diritto internazionale e da gran parte dei trattati sul rispetto dei diritti umani, e il divieto alla stampa di parlare dei crimini di guerra degli amnistiati contenuto nella legge, puzza di mordacchia. La Ue è imbarazzata e lascia andare avanti la società civile nella speranza che Karzai non firmi. Anche perché il clima è irrespirabile: «Se andiamo avanti così l’opinione pubblica afgana finirà per paragonare la presenza americana a quella dell’Urss - ci dice la funzionaria - un paragone per noi inaccettabile ma il rischio che qui la pensino così è grande». Un po’ di propaganda talebana, la deriva di Karzai e il resto ce lo mettono bombardamenti e attacchi della Nato.
Una cosa è sicura: le occasioni per sostenere la società civile e le forze politiche democratiche e laiche l’Europa le ha perse quasi tutte. Basta incontrare quelli di Hanbastagi, un partito fondato nel 2002 dai Freedom Fighters against Soviets, combattenti per la libertà degli anni ’80, prima armati e poi abbandonati dagli Usa in favore dei talebani. Destino strano per i più filo-occidentali tra gli oppositori all’invasione sovietica. Ripescati dopo la vittoria talebana, gli avevano promesso sostegno e fondi. Hanno 20mila iscritti, due donne in Parlamento, poche sedi, nemmeno un euro in cassa, ma continuano a sostenere che la democrazia non si esporta con le armi, si battono contro la discriminazione etnica e pensano spetti agli afgani costruire un paese civile.
Avevano sostenuto Karzai credendo si sarebbe opposto ai fondamentalisti e ai signori della guerra. Nonostante siano i più vicini a quell’idea di democrazia occidentale di cui l’Europa e gli Usa si riempono la bocca, sono soli e quando denunciano un ministro del governo, carte alla mano, di usare soldi pubblici per comprarsi terre, finiscono in tribunale.
Quello che può succedere anche al Youth Initiative Group, un gruppo misto di studenti universitari; vorrebbero discutere liberamente di sessualità, relazioni affettive e sociali, dando vita a una rivista: Lar, il sentiero. Gli mancano soldi e permessi. L’anno scorso a settembre sono stati invitati a Bruxelles dalla Nato per confrontarsi con 30 studenti europei (tra cui due italiani selezionati chissà come e da chi) sulla sicurezza nel loro paese. Un viaggio premio. La crescita della società civile del futuro in Afghanistan è affidata alla Nato? E’tutto quello che l’Europa sa fare?
Da "Liberazione", 8 e 10 Marzo