LETTERA APERTA AL PAPA BENEDETTO XVI CONTRO IL RIPRISTINO DELLA MESSA IN LATINO DEL 1570 E IN DIFESA DEL CONCILIO ECUMENICO VATICANO II

Un papa non può abrogare un concilio
di Paolo Farinella


Sembra che il papa Benedetto XVI stia per promulgare un «motu proprio» con il quale concederebbe l’indulto non di celebrare la Messa in latino (possibilità già esistente), ma di ripristinare il rito della Messa, detta «di Pio V», il papa che nel 1570 «per ordine del concilio di Trento» riordinò la liturgia preesistente adeguandola agli statuti del concilio. Fin dalle origini la Messa non è mai stata qualcosa di «definitivo», ma è sempre stata il frutto di uno sviluppo continuo e vivo: nei primi secoli a Roma il «memoriale del Signore» è celebrato in greco e fino all’editto di Teodosio (a. 312) vi è ampia libertà di liturgia.
Di vera riforma si comincia a parlare nel sec. VII con papa Gregorio Magno (590-604) che riorganizzò a fondo la liturgia romana, facendo ordine nelle fonti liturgiche anteriori, componendo nuovi testi e promuovendo il canto liturgico che dal suo nome si chiama «gregoriano». Dopo di lui per influsso della corte carolingia che esporta in tutta Europa i riti romani, si diffondono i Sacramentari che diventano usuali nel sec. XI. La liturgia della Messa, però, resta abbastanza libera e anche povera di contenuti.
Di «libro» in senso moderno si può parlare solo con papa Gregorio VII (1073-1085) che intraprende una riforma più incisiva: nasce il «Pontificale romanum» che diventa la guida ufficiale dei riti presieduti dal papa e nel sec. XIII viene assunto come Pontificale romano di tutta la curia. Continua un processo lento e e costante che durante il Medio Evo porta i Sacramentari del tempo carolingio a confluire nel «Missale plenarium» della curia romana. Questo messale unifica in sé i due filoni finora separati: l’«Ordo Missae» e l’«Ordo lectionum». La riforma di Paolo VI del 1969 li ha ripristinati e sono il «Messale» e il «Lezionario». Alla vigila del concilio di Trento a Roma era in uso il messale detto «italo-germanico». E’ in questo contesto che si situa il Concilio di Trento e la sua richiesta di riforma come controriforma.
Pio V mise ordine in questo mare di riti e usi, abrogò e modificò radicalmente tutto ciò che esisteva prima editando un testo «ufficiale» che doveva servire prima di tutto come segno di riconoscimento «cattolico» contro la liturgia della riforma di Lutero. Solo per questo motivo impose la sua riforma a tutta la Chiesa, lasciando in vita soltanto i riti che potevano dimostrare di avere almeno due secoli di vita autonoma.
Il messale di Pio V fu aggiornato da papa Clemente VIII nel 1604, da papa Urbano VIII nel 1634 e da papa Pio X nel 1911. Il papa Pio XII nel 1946 istituì una Commissione per la riforma generale della liturgia che iniziò i lavori nel 1949 e dopo l’annuncio del concilio Vaticano II nel 1959 confluì nella Commissione liturgica preparatoria dello stesso concilio. E’ ancora vivente nel convento di San Francesco di Fiesole, il francescano liturgista p. Rinaldo Falsini che della commissione conciliare fu segretario-verbalista: egli è la testimonianza storica della «mens» conciliare. A quanto ci risulta, però, nessuno della curia romana ha mai sentito il dovere di consultarlo fosse anche per un parere «pro veritate» (cf i suoi molti scritti di questi ultimi anni come ad es. l’ultimo: «Le nostre liturgie. L’altare verso il popolo è scelta conciliare», in Vita Pastorale 10 [ottobre 2006]). Lo stesso papa Pio XII nel 1951 riformò il messale di Pio V relativamente alla veglia pasquale e nel 1956 riordinò completamente tutta la settimana santa, abrogando la precedente.
Da questi fugaci accenni storici si vede che il messale e gli altri libri liturgici non sono mai stati intoccabili o irreformabili, ma sono stati pubblicati, riformati e abrogati come qualsiasi realtà umana. Il messale esprime la lex orandi che per sua natura è legata alla psicologia della persona ed è quindi naturale che ogni epoca manifesti la lex credendi con la sensibilità della propria epoca. In questa linea di permanente riforma e di aggiornamento, nel 1969 papa Paolo VI, fedele alla Tradizione e per ordine di un altro concilio ecumenico, il Vaticano II, pose mano ad una riforma globale della liturgia alla luce delle fonti bibliche e patristiche, abrogando i riti precedenti e offrendo alla Chiesa un nuovo messale perché «i fedeli non assistano come estranei o muti spettatori a questo mistero di fede, ma comprendendo bene… riti e… preghiere, partecipino all’azione sacra consapevolmente, piamente e attivamente» (Cost. lit. Sacrosantum Concilium [SC] 48).
Papa Paolo VI non è meno papa degli altri che hanno dato vita a riforme più o meno incisive. Egli infatti realizzò il dettato conciliare: «L’ordinamento rituale della messa sia riveduto in modo che appaia più chiaramente la natura specifica delle singole parti e la loro mutua connessione, e sia resa più facile la partecipazione pia e attiva dei fedeli. Per questo i riti, conservata fedelmente la loro sostanza, siano semplificati; si sopprimano quegli elementi che, col passare dei secoli, furono duplicati o aggiunti senza grande utilità; alcuni elementi invece, che col tempo andarono perduti, siano ristabiliti, secondo la tradizione dei Padri, nella misura che sembrerà opportuna o necessaria» (SC 50).
Alcuni non dotati di sufficiente spirito di discernimento affermano che il rito di Pio V non può essere abrogato e che Paolo VI non poteva abolirlo. Ciò è falso, in forza del diritto e delle consuetudini, come preciseremo più avanti (cf CJC can. 6, §1, 4° e cann.19-20). Paolo VI, infatti, non aggiunge un nuovo messale all’antico, ma su richiesta del concilio, rivede, semplifica, sopprime e presenta una «nuova composizione», in una parola abroga e sostituisce il precedente che resta come testimonianza storica di un’epoca, espressione della ecclesiologia emersa dal concilio di Trento in contrapposizione alla Riforma di Lutero.
A Mons. Gaetano Bonicelli vescovo di Siena il quale poneva il quesito: «Ogni sacerdote può usare il Messale tridentino senza alcun permesso, posto che S. Pio V gliene assicura la facoltà in perpetuo?», la Congregazione per il Culto Divino in data 11 giugno 1999 (Prot. n° 947/99L) rispondeva: «No, poiché il “Missale Romanum” detto di S. Pio V è da ritenersi non piú in vigore».
Alla schiera di nostalgici si è iscritto di sua iniziativa il card. Joseph Ratzinger, allora prefetto dell’ex Sant’Uffizio e oggi papa Benedetto XVI. Egli in un suo libro autobiografico (La mia vita: ricordi, 1927-1977, San Paolo, Cinisello Balsamo, 1997, pp. 110-113) dimostra di non essere sufficientemente informato sulla questione storica del «Messale». Dopo avere preso atto della «pubblicazione del messale di Paolo VI, con il divieto quasi completo del messale precedente» (cioè di Pio V), si dichiara «sbigottito per il divieto del messale antico, dal momento che una cosa simile non si era mai verificata in tutta la storia della liturgia». Basandosi sul fatto che «Pio V si era limitato a far rielaborare il messale romano allora in uso... Non diversamente da lui, anche molti dei suoi successori avevano nuovamente rielaborato questo messale, senza mai contrapporre un messale a un altro… Un messale di Pio V che sia stato creato da lui non esiste. C’è solo la rielaborazione da lui ordinata, come fase di un lungo processo di crescita storica».
Il cardinale Ratzinger giunge alla conclusione che «non si può affatto parlare di un divieto riguardante i messali precedenti fino a quel momento regolarmente approvati» per cui «per la vita della Chiesa è drammaticamente urgente un rinnovamento della coscienza liturgica, una riconciliazione liturgica, che torni a riconoscere l’unità della storia della liturgia e comprenda il Vaticano II non come rottura, ma come momento evolutivo. Sono convinto che la crisi ecclesiale in cui oggi ci troviamo dipende in gran parte dal crollo della liturgia… per questo abbiamo bisogno di un nuovo movimento liturgico, che richiami in vita la vera eredità del concilio Vaticano II».
Le dichiarazioni del cardinale Ratzinger pubblicate nel 1997 furono di fatto smentite dalla Congregazione per il Culto Divino nel 1999 con la risposta ai quesiti del vescovo di Siena. Non è concepibile che in una materia così rilevante la Congregazione non abbia consultato il papa e da lui non abbia avuto il nulla osta. Non risulta che l’ex prefetto dell’ex Sant’Uffizio abbia ritrattato le sue precedenti dichiarazioni. Joseph Ratzinger ora è papa, ma non per difendere le idee che lo nutrivano da cardinale, ma in quanto papa della Chiesa cattolica egli non può fare quello che vuole, ma è vincolato al mandato ricevuto che è quello di confermare i fratelli e le sorelle nella fede, che nel concilio ecumenico trova la sua massima espressione di universalità.
Egli non può proporre come «modello» per i cattolici i denigratori del concilio, altrimenti lo stesso papa si pone fuori della sua stessa Chiesa, di cui dovrebbe essere geloso custode e «servo dei servi».
Ripristinare il rito di Pio V di fronte alla totalità dei credenti apparirebbe come una sconfessione dei papi Giovanni XXIII e Paolo VI e anche un atto di sabotaggio del magistero del concilio Vaticano II. Riteniamo infatti che il papa non possa ripristinare «la Messa di Pio V» perché un papa non può annullare o contraddire un concilio il cui magistero si esercita «in modo solenne sulla chiesa universale» (CJC, 337§1), come afferma la stessa Congregazione per il Culto Divino: «l’autorità del Concilio o del Romano Pontefice non viene esercitata in modo arbitrario, bensì avendo sempre presente il bene comune della Chiesa».
E’ ben noto che la Messa in latino secondo il rito riformato del concilio di Trento è un pretesto, un vessillo ideologico per portare a termine un progetto più ampio di «restaurazione» antistorica per chiudere in modo definitivo e ingloriosamente il concilio ecumenico Vaticano II, dichiarandolo un semplice incidente della storia. Negli anni 1963-1965 il card. di Genova Giuseppe Siri soleva ripetere come un ritornello che «occorreranno 50 anni per riparare gli errori del concilio» e si vantava di non averne approvato le riforme: ora può riposare in pace perché il suo desiderio si sta avverando.
Un rito non vale l’altro e l’uno e l’altro pari non sono perché dietro ogni rito che è espressione della fede della Chiesa universale (lex orandi, lex credendi) sta la coscienza che la Chiesa ha di se stessa e quindi la concezione della propria ecclesiologia. Quella di Pio V non è la stessa di quella di Paolo VI perché esprimono due visioni opposte. La prima è clericocentrica perché concepisce la liturgia prevalentemente come ritualità di ribriche che ha nel sacerdote il fulcro e la chiave della mediazione, espresso nel segno dell’altare non rivolto al popolo. La seconda partendo dal concetto che la liturgia è atto sacramentale che esprime il mistero di Cristo (cf Conc. ecum. Vat. II, Costituzione sulla Liturgia, SC 2), la presenta come azione di tutta la chiesa: l’altare rivolto al popolo è il segno «visibile» della centralità di Cristo a cui converge tutta l’assemblea-chiesa «convocata» alla duplice mensa della Parola e del Pane (SC 51 e 56).
Tra i gruppi di pressione si distingue quello fondato dal vescovo scismatico Marcel Lefebvre, scomunicato da Giovanni Paolo II. Il comunicato finale del 3° capitolo generale tenutosi ad Ecône in Svizzera nei giorni 2-15 luglio 2006 [non dieci anni fa, ma appena quattro mesi or sono!!!] dichiara [sottolineature nostre]: «la sua ferma risoluzione di continuare… la sua azione nella linea dottrinale e pratica tracciata dal… Fondatore, Mons. Marcel Lefebvre. Camminando sui di lui passi nella battaglia per la difesa della fede cattolica, la Fraternità fa sue le critiche verso il Concilio Vaticano II e le sue riforme così come egli le ha espresse nelle sue conferenze e nelle sue omelie, in particolare nella dichiarazione del 21 novembre 1974: “Noi aderiamo con tutto il cuore, con tutta la nostra anima alla Roma cattolica, custode della fede cattolica e delle tradizioni necessarie alla conservazione di questa fede, alla Roma eterna, maestra di saggezza e di verità. Noi invece rifiutiamo e abbiamo sempre rifiutato di seguire la Roma di tendenza neo-modernista e neo-protestante che si è chiaramente manifestata nel Concilio Vaticano II e dopo il Concilio in tutte le riforme che ne sono derivate”».
Ciononostante il papa Benedetto XVI ha approvato il decreto dell’8 settembre 2006 (Prot. n. 118/2006) della Pontificia Commissione «Ecclesia Dei» con cui si erige nella diocesi di Bordeaux l’Istituto del Buon Pastore come Società di vita apostolica di diritto pontificio (cioè sottratta a qualsiasi autorità e soggetta solo e direttamente al papa) che accoglie quanti si sono staccati dal movimento di Lefebvre per rientrare nella Chiesa cattolica. A costoro è «conferito il diritto di celebrare la liturgia sacra utilizzando propriamente come loro proprio rito i libri liturgici in vigore nel 1962, e cioè il Messale Romano, il Rituale Romano, e il Pontificale Romano per il conferimento degli Ordini, nonché il diritto di recitare l’Ufficio Divino secondo il Breviario Romano edito nella stesso anno». L’uso del Messale di Pio V è stato concesso a questo Istituto come «diritto» senza alcuna previa dichiarazione di accettazione del magistero del concilio, convalidando così non solo lo scisma, ma diventandone in qualche modo corresponsabile e diffusore all’interno della Chiesa. Si dice che il prossimo indulto sarà concesso «a tutta la Chiesa» a discrezione di chi lo richiede come evidente scappatoia per non chiedere ai lefebvriani la professione di fedeltà al concilio Vaticano II che essi si rifiutano di fare. Lo scisma è istituzionalizzato.
Il papa ha imposto l’Istituto Buon Pastore alla diocesi di Bordeaux anche contro il parere del Vescovo e dei vescovi francesi che nella loro Assemblea plenaria (Lourdes 4-9 novenbre 2006) all’unanimità hanno dichiarato la loro fedeltà indiscussa al concilio. Oggi in Francia per questa sciagurata scelta, si profila uno scisma ancora maggiore dei figli migliori che cominciano ad abbandonare la Chiesa. A questo Istituto che vuole abrogare il Concilio Vaticano II il papa dà anche la finalità di interpretazione corretta del concilio stesso: sarebbe come dare un agnello al lupo perché lo custodisca.
Conferire il diritto esclusivo all’uso dell’ecclesiologia tridentina e negare la validità del concilio Vaticano II e la nuova ecclesiologia è la stessa cosa, tanto più che coloro che l’hanno ricevuto (Istituto Buon Pastore) o lo riceveranno (lefebvriani e tutti i gruppi fondamentalisti che attendono l’indulto come rivincita e riscossa), dichiarano ufficialmente che compito della loro missione è l’abrogazione del Vaticano II come concilio ecumenico normativo per tutta la Chiesa e la sconfessione dei papi Giovanni XXIII e Paolo VI che essi considerano, di fatto, apostati e ispirati da satana.
Dopo questo «vulnus» nella dottrina e nella prassi, ognuno nella Chiesa sarà autorizzato di fatto a farsi la liturgia su misura e a scegliersi il rito che più piace, instaurando così la piena anarchia anche sul piano della fede. Già assistiamo ad uno scisma profondo nella Chiesa: la gerarchia della Chiesa cattolica si è di fatto separata dal suo popolo, il quale cammina per conto suo senza più tenere in conto un magistero che serve se stesso e non il bene comune della Chiesa nella legittima autonomia in ogni cultura e latitudine. Il convegno della chiesa italiana di Verona ne è un esempio.
Se il papa può accettare la sconfessione di un concilio e di due suoi predecessori su una materia di fede normativa come la liturgia perché non può accettare la sconfessione dei suoi predecessori su materie di semplice valenza canonica come il celibato facoltativo, il riconoscimento del sacerdozio coniugato e il sacerdozio alle donne? Perché su chi propone queste realtà ben più estese e sofferte nella Chiesa, cade immediatamente la mannaia della condanna, senza nemmeno un tentativo di ascolto?
«E’ sensazione diffusa che, dopo la stagione profetica del primo postconcilio, la comunità ecclesiale italiana stia attraversando una fase di normalizzazione» (B. Sorge, S.I., «Tra profezia e normalizzazione – La Chiesa italiana da Roma 1976 a Verona 2006», in Aggiornamenti Sociali, 2[2006] 115-126). L’istituzione prevale sulla profezia, la struttura sul carisma e la legge sullo spirito. Dietro al ripristino del messale di Pio V si cela e nemmeno tanto, il progetto di un ritorno alla «Chiesa-cristianità» di stampo medievale. Proliferano infatti, gruppi le cui organizzazioni sono strutturate in modo autoritario e manu militari: «milites et legiones» da inviare contro «il mondo» per affermare «il Regno di Cristo» in terra, possibilmente con governi cattolici che fungano da braccio secolare nella difesa degli interessi di reciproca utilità.
Questi gruppi e sètte, finanziati a livello internazionale da uomini, agenzie e interessi di estrema destra, oggi hanno il consenso e il riconoscimento formale dell’autorità religiosa che così abdica al suo dovere di discernimento in forza del mandato apostolico. Rincorrere i fantasmi di una «cristianità» di stampo medievale significa rallentare il cammino della storia e vanificare la funzione della Chiesa che se non cammina con i tempi, non arriverà mai in tempo «a recapitare la lettera che le è stata affidata…da quasi venti secoli» (Paolo VI, «Discorso all’Assemblea della Nazioni Unite» del 4 ottobre 1965).
Consapevoli di rispondere ad un imperativo della nostra coscienza, chiediamo al papa di adempiere al suo mandato di rafforzare il popolo di Dio nella fede, facendo un pubblico ed espresso atto di ossequio nel concilio ecumenico Vaticano II, di cui ci gloriamo di essere figli e custodi e di esigere da quanti presumono di essere cristiani «cattolici» il rispetto delle riforme liturgiche secondo il messale riformato di Paolo VI per ordine dello stesso concilio.
Preghiamo il papa di desistere dal concedere l’indulto in deroga al concilio: non vorremmo che fra qualche tempo dovesse smentirsi per la terza volta (1a volta; discorso di Ratisbona, 2a volta discorso alla conferenza episcopale svizzera in visita ad limina).
Vogliamo impegnarci e lavorare per la convocazione di un nuovo concilio che abbia nella sua agenda i grandi temi del terzo millennio: la sopravvivenza della terra; la povertà di tre quarti dell’umanità; l’acqua sorgente di vita per tutti i popoli, lo sviluppo compatibile; la guerra bandita; il ritorno al «principio» della Parola; la struttura della Chiesa popolo di Dio; il contenuto e lo stile dell’autorità come servizio; i criteri di scelta dei vescovi; la teologia come comunione di teologie, i laici e le laiche soggetti attivi della Chiesa; l’autonomia e la libertà delle comunità in materia organizzativa e cultuale; la liturgia «cattolica» come unità nella varietà delle lingue, della sapienza e del genio di ogni popolo; i titoli e le onorificenze incompatibili con la fede; quali ministeri per quale Chiesa; il sacerdozio coniugato e il celibato; la Chiesa è donna; gli ordinariati militari; il rapporto con «i regni di questo mondo» (concordati?); la formazione permanente.
Di fronte a queste sfide che aprono il terzo millennio e che attendono la Chiesa come testimone del Lògos incarnato nella storia (Gv 1,14), volere ritornare al passato ripristinando formule e riti di altri tempi e fuori tempo, è sintomo di paura, peccato di superbia e sfiducia nello Spirito Santo che oggi, secondo questi «profeti di sventura» non saprebbe parlare più come invece ha fatto nel passato, nonostante Cristo sia «lo stesso ieri e oggi e nei secoli» (Eb 18,3). Oggi più che mai vale il grido di Cristo agli apostoli spaventati, fatto proprio dal papa Giovanni Paolo II nel giorno d’inizio del suo pontificato: «Non abbiate paura!» (Mc 6,50). Noi non abbiamo paura.
I papi, i cardinali, le messe e i riti passano, la Chiesa resta come popolo di Dio per camminare con i tempi per arrivare in tempo.

Paolo Farinella,    prete - Genova

 

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