Lettera aperta al Direttore di Avvenire sui cappellani militari
Gentile Direttore,
abbiamo letto l’editoriale di Marco Tarquinio su Avvenire del 19 luglio u.s.
“Irrinunciabile presenza tra gli uomini in divisa”. Non nascondiamo il
nostro stupore e disappunto perché, a partire dal titolo, sembra che non vi
possa esserci alternativa all’attuale forma della presenza dei cappellani tra i
militari, considerata dall’autore ‘irrinunciabile’. Al pari di valori e
verità non negoziabili?
Siamo parroci, impegnati tra la gente da molti anni, in luoghi diversi
dell’Italia al Nord e al Sud. Avvertiamo una crescente sensibilità e attesa dei
credenti per una Chiesa capace di scelte più audaci e credibili.
Da diversi anni, nella stessa Chiesa italiana vanno emergendo riflessioni
teologiche e proposte pastorali che mirano a rivedere lo status dei cappellani
militari.
Già parlare di preti con le stellette o di chiesa militare induce
a considerare gli stessi cappellani organicamente inseriti nel sistema
gerarchico delle forze armate, con relativi gradi, carriera e stipendi.
Non è da mettere in questione, secondo noi, la necessità della presenza
religiosa e l’assistenza spirituale nelle caserme, ma l’opportunità di
smilitarizzarne le forme e le norme che oggi la regolano, come ad. es. già
accade per la Polizia di Stato.
Sarebbe un segnale positivo non solo nella direzione di una matura laicità dello
Stato, ma anche della necessaria libertà della Chiesa.
Abbiamo riletto proprio in questi giorni, nel 40° anniversario della sua morte,
la Lettera ai cappellani militari di don Lorenzo Milani e vorremmo che il
suo ricordo non si riducesse ad un rito di sterile riabilitazione celebrativa.
Riteniamo doveroso ripensare con serena e rinnovata consapevolezza alle radici
evangeliche della chiesa per proseguirne il cammino alla luce del Concilio
Vaticano II e dell’esperienza di tanti testimoni e martiri di ieri e di oggi.
I cristiani “sono nel mondo ma non sono del mondo”. Sono “nel” sistema,
come amava dire P. Turoldo, ma non sono“del” sistema. “Abitano una loro
patria, ma come forestieri; ogni terra straniera è patria per loro e ogni patria
è terra straniera” (Lettera a Diogneto).
Aver ceduto nel passato alla tentazione di coniugare la croce con la spada o
aver stretto alleanze fra trono e altare, sia pure per nobili fini di
evangelizzazione e di civilizzazione, ha portato la Chiesa a conseguenze spesso
nefaste e disastrose. “Non si addicono alla Chiesa i segni del potere -
ci ricordava don Tonino Bello – perchè le basta soltanto il potere dei
segni.”
Nel rispetto delle proprie e delle altrui competenze e responsabilità, la
Chiesa è chiamata certamente a portare e a testimoniare il Vangelo anche tra i
soldati, ma facendosi eco di quella Parola profetica e non negoziabile:
“rimetti la tua spada nel fodero, perché chi di spada ferisce di spada perisce”.
Parola che può suscitare derisione, rifiuto e può portare al martirio, ma
diventa seme di speranza per quanti cercano giustizia senza violenza e pace
senza tornaconto.
E’ tempo allora non più di cappellani militari, ma di cappellani tra i
militari.
Cappellani con il coraggio di ripetere, all’occorrenza, come mons. Romero:
“Soldati, vi prego, vi supplico, vi scongiuro, vi ordino, non uccidete più..”.
Cappellani che, sostenuti dai Pastori e organicamente inseriti nella vita delle
comunità, promuovano anche lo studio e l’attuazione di nuovi sistemi di difesa
nonviolenta, in alternativa ai modelli ‘armati’ delle missioni di pace.
Cappellani liberi da mimetiche e stellette, da stipendi e privilegi, a servizio
di un Dio che difende sempre la vita, e non di un potere, sia pure legittimo,
che può dare anche la morte.
Non sarebbe questa una scelta da compiere, in modo unilaterale e preventivo, per
dovere di coscienza cristiana e di fedeltà al Vangelo, senza attendere una legge
dello Stato, vissuta o subita come una forzata privazione di un
irrinunciabile diritto?
21 luglio 2007
Don Salvatore Leopizzi, parroco a Gallipoli, (Lecce)
Don Renato Sacco, parroco a Cesara, (Verbania)