Leggi razziali.  Non si gioca con la Storia


È difficile crederlo. Ma Gianni Alemanno, vincitore delle elezioni di aprile e nuovo sindaco di Roma si è dimostrato più fascista del capo di Alleanza Nazionale, Gianfranco Fini. Questi, cinque anni fa, in visita a Gerusalemme, aveva parlato del fascismo come epoca del «male assoluto». Per Alemanno (diventato, grazie ad alcuni dirigenti della comunità ebraica di Roma, vicepresidente della Fondazione del Museo della Shoà fondato nella capitale) le cose non stanno così.
In un’intervista al Corriere della Sera di ieri definisce le leggi razziali come il «male assoluto» ma, nello stesso tempo, giudica il fascismo «un fenomeno più complesso». Se il regime mussoliniano adottò quelle leggi, dice in sostanza Alemanno, fu per un cedimento alla Germania nazista e non in conseguenza di un carattere essenziale dell’Italia fascista.
Per gli studiosi, non solo italiani, le dichiarazioni del sindaco di Roma corrispondono a una visione del fascismo che non ha un effettivo fondamento storico. Chi conosce, sulla base dei documenti a disposizione, la nascita e l’evoluzione del movimento fascista non può avere oggi la visione semplicistica e assolutoria che ci propone il sindaco di Roma.
Innanzitutto ad Alemanno occorre ricordare che una corrente antisemita c’è sempre stata nel movimento fascista dagli anni dell’esordio. Un personaggio come Giovanni Preziosi, direttore della rivista antisemita La vita italiana e negli ultimi anni esponente importante del fascismo trionfante e poi della Repubblica Sociale Italiana, ha militato sempre nel movimento mussoliniano e ha detto con chiarezza fin dagli anni venti che cosa pensava degli ebrei.
In secondo luogo, la campagna di discriminazione razziale non incomincia in Italia nell’ottobre 1938 ma parte, sul piano culturale, almeno quattro anni prima con la circolare di Mussolini del 3 aprile 1934 sulla censura e il sequestro dei libri proibiti: il primo libro sequestrato è il romanzo Sambadù amore negro della scrittrice Maria Volpi alias Mura che mostrava in copertina un’italiana che baciava un africano nero.
L’inizio punta, insomma, sul contrasto tra neri e bianchi che, con l’impresa di Etiopia, provoca decreti razzisti di discriminazione nella nuova colonia italiana che è all’origine dell’impero fascista.
Quanto al 1938, l’Italia fascista anticipa e precorre con le sue leggi razziali la legislazione nazionalsocialista, introducendo divieti e misure che escludono drasticamente dalla società italiana tutti gli ebrei.
Ma, a parte quella che è una ricostruzione, sia pure sintetica, della vicenda italiana che sfocerà qualche anno dopo nella Shoà consumata nell’alleanza con Hitler, ha senso staccare la storia del fascismo da quella del razzismo antisemita?
A nostro avviso non ha nessun senso perché il legame tra fascismo e antisemitismo ha percorso dall’inizio l’evoluzione del movimento mussoliniano e ne ha segnato in maniera tragica la terribile conclusione. In tutta l’Europa dove il fascismo non ha vinto non abbiamo mai assistito a fenomeni di razzismo e antisemitismo paragonabili a quelli dell’Italia fascista e della Germania nazista. E dunque non si può liquidare il fascismo come «un fenomeno più complesso» e non sottolineare il legame tra i due fenomeni. Nè ha senso alcuno difendere il fascismo come se nulla avesse a che fare con l’antisemitismo né liquidare quelli che vi aderirono parlando della loro supposta buona fede.
Alemanno, sempre nell’intervista al Corriere della Sera, non nega di portare sul petto la catena con la croce celtica e si ostina a parlarne come di un simbolo esclusivamente religioso quando l’esperienza storica del Novecento sa bene che quello fu un simbolo dei movimenti fascisti e, in particolare, del nazionalsocialismo.
Reticenze e piccole ambiguità, insieme ad errori storici di fondo, poco si addicono, mi pare, a chi in questo momento è sindaco di una grande capitale come Roma.
 

Nicola Tranfaglia    l’Unità 8.9.08

 

 



Il valore della memoria


Fascismo, leggi razziali, Olocausto. Termini che vengono continuamente evocati - nel dibattito culturale come nella polemica politica - ma a cui non sempre si è in grado di attribuire il giusto significato. Le dichiarazioni di Alemanno da Israele, che vogliono attenuare quelle di Fini sul fascismo (definito «male assoluto»), inducono a riflettere sul tema della memoria, soprattutto nell’ottica delle nuove generazioni.
Tra le tante ragioni che rendono questa discussione urgente, ce ne è una “tecnica”: anno dopo anno si riduce il numero dei sopravvissuti, ed il testimone passa necessariamente nelle mani di persone che non furono investite direttamente dalla tragedia, e che quindi hanno verso quest’ultima un atteggiamento critico e mediato.
Negli ultimi anni si è assistito ad un proliferare di manifestazioni pubbliche sulla Shoah. Eventi istituzionali, arricchiti dal lavoro prezioso portato avanti nelle scuole da presidi e docenti spesso assai motivati e preparati. Si può affermare che i giovani sono stati interessati da una mole di iniziative sull’Olocausto, favorite dallo spazio che i media dedicano al tema per la Giornata della Memoria (27 gennaio, legge dello Stato). Ovviamente, se da questo punto di vista possiamo essere soddisfatti, conviene però interrogarsi sull’efficacia di questo lavoro, messa seriamente in discussione dalle inchieste che periodicamente evidenziano l’enorme ignoranza dei ragazzi sulla storia di quegli anni.
Almeno tre sono a mio parere i punti critici. In primo luogo è lecito domandarsi se il carattere istituzionale delle manifestazioni pubbliche non allontani da una percezione individuale, empatica e tragica dei fatti narrati. Mentre il contatto con i sopravvissuti consente ai giovani una immedesimazione sincera con le vittime, ciò non sempre accade nelle cerimonie “consacrate”. D’altra parte è opportuno ragionare anche sulla figura del testimone, come ha tra gli altri mirabilmente fatto Annette Wievorka. L’urgenza di avvalersi il più possibile - e giustamente - della disponibilità dei sopravvissuti, li ha però resi assolutamente preponderanti. Alla significativa presenza di ex-deportati nelle scuole non ha fatto riscontro un approfondimento della vicenda storica, delle cause che condussero alla tragedia e delle varie e molteplici responsabilità che la resero attuabile.
E proprio la dimensione delle responsabilità mette in luce il terzo pericolo fondamentale, evidenziato dalle parole del sindaco di Roma. Nel tentativo di edulcorare a fini politici un’epoca - ai postfascisti viene chiesto conto solo dell’antisemitismo, e non del carattere autoritario e dittatoriale del Ventennio - si contribuisce a distogliere l’attenzione da quelle che furono le colpe reali. Si cerca di scaricare interamente sui nazisti il peso della Shoah o a ridurre la portata razzista del colonialismo italiano, invece di indurre i giovani a porsi la domanda più importante: cosa avrei fatto io non al posto della vittima, ma della persona qualunque? Perché è doveroso ricordare i “giusti”, coloro che eroicamente misero a repentaglio la propria vita per salvare esseri umani senza chiedere nulla in cambio; ma non si può omettere che solo dodici (12!) furono i professori universitari che rifiutarono di giurare fedeltà al regime, unici a non preoccuparsi esclusivamente della propria carriera accademica. Anche questo fu il degrado etico e culturale che chiamiamo fascismo, frutto di vent’anni di asservimento intellettuale e di privazione della libertà.
Una memoria che sappia guardare al futuro, dunque, una memoria per i giovani, non può essere un monumento, un cristallo: deve essere attualizzata e declinata ogni giorno per i diritti e le libertà di quanti oggi, nel mondo, soffrono persecuzioni ed ingiustizie. Solo se, ragionando sul passato, ci si muoverà con questa stella polare, noi giovani saremo nella condizione di rispondere efficacemente alla più decisiva delle domande: che cosa avrei fatto io? E, dunque, cosa posso fare oggi?

Tobia Zevi    l’Unità 8.9.08