LEGGE NATURALE E MAGISTERO ECCLESIATICO
Quando nei suoi
innumerevoli interventi, soprattutto a
proposito di questioni attinenti alla
sessualità - dai metodi contraccettivi alla
fecondazione assistita, dalle unioni di
fatto all’omosessualità - afferma di
difendere valori fondati sulla natura, il
Vaticano dà l’impressione non di esprimere
solo una sua convinzione ma di parlare anche
a nome del popolo dei credenti. Ma è davvero
così? Per nulla.
Anzi una cosa è certa: buona parte di coloro
che si dicono cattolici ignora regolarmente,
senza sentirsi perciò in colpa, i presunti
precetti della morale naturale ed esprime
con i fatti un clamoroso dissenso nei
confronti delle gerarchie ecclesiastiche.
Ma, cosa ancor più significativa, questa
disobbedienza di massa è stata avallata
dagli studiosi cattolici che, in numero
crescente dopo il concilio Vaticano II,
hanno contestato la stessa nozione di legge
naturale e quindi le norme morali che la
gerarchia vorrebbe imporre.
Eppure Benedetto XVI, come il suo
predecessore, considera il tema così
importante da porlo al centro della
riflessione teologica: infatti nel corso
dell’Udienza concessa il 5 ottobre 2007 ai
membri della Commissione teologica
internazionale, prestigioso organismo che
collabora con la Congregazione per la
dottrina della fede e che come quella è
presieduto dal card. Levada, il papa ha
ricordato che “si sono tenuti o si stanno
organizzando, da parte di diversi centri
universitari e associazioni, simposi o
giornate di studio al fine di individuare
linee e convergenze utili per un
approfondimento costruttivo ed efficace
della dottrina sulla legge morale naturale”
e che quindi sulla questione è lecito
attendersi presto un significativo
contributo della Commissione stessa.
Se ci si chiede il motivo della centralità
attribuita alla legge naturale e alla
problematica morale, credo che la risposta
plausibile sia una sola: l’obiettivo
perseguito è la riconquista di un’egemonia
culturale da tempo perduta. Infatti, se
vuole non solo parlare ai cattolici ma anche
presentarsi come interlocutore nel dibattito
sui temi che toccano tutta la società, il
magistero non ha altra scelta: non potendo
pretendere che tutti accettino i suoi dogmi
di fede, che tra l’altro coinvolgono sempre
meno gli stessi fedeli, deve insistere sui
principi morali, considerati espressione di
una legge naturale fondata sulla ragione, e
perciò valida per tutti, credenti e non
credenti.
Dissenso vietato
Se si vuole riaffermare il valore della
legge naturale, la prima cosa da fare è
evidentemente soffocare il dissenso interno.
E infatti gli ultimi due pontefici non hanno
avuto esitazioni nel ribadire il ruolo del
magistero e nel punire, nei modi oggi
praticabili (non è più tempo di roghi!), i
dissenzienti. E, se non si possono
costringere le masse all’obbedienza, almeno
si costringono al silenzio i teologi. Per
quanto riguarda l’ambito della morale,
l’intervento più significativo ai fini della
normalizzazione è sicuramente l’enciclica
Veritatis splendor, del 1993, nella
quale Giovanni Paolo II, deciso avversario
del rinnovamento della teologia morale
post-conciliare, dichiara che è “necessario
riflettere sull'insieme dell'insegnamento
morale della Chiesa, con lo scopo
preciso di richiamare alcune verità
fondamentali della dottrina cattolica che
nell'attuale contesto rischiano di essere
deformate o negate. Si è determinata,
infatti, una nuova situazione entro la
stessa comunità cristiana, che ha
conosciuto il diffondersi di molteplici
dubbi ed obiezioni, di ordine umano e
psicologico, sociale e culturale, religioso
ed anche propriamente teologico, in merito
agli insegnamenti morali della Chiesa”(n 4).
Il papa, infatti, sa che anche nel mondo
cattolico “si respinge la dottrina
tradizionale sulla legge naturale,
sull'universalità e sulla permanente
validità dei suoi precetti; si considerano
semplicemente inaccettabili alcuni
insegnamenti morali della Chiesa; si ritiene
che lo stesso Magistero possa intervenire in
materia morale solo per «esortare le
coscienze» e per «proporre i valori», ai
quali ciascuno ispirerà poi autonomamente le
decisioni e le scelte della vita”(ivi).
Per questo ritiene necessario intervenire
sulla questione come mai era accaduto in
passato: “È la prima volta, infatti, che il
Magistero della Chiesa espone con una certa
ampiezza gli elementi fondamentali”(n 115)
della dottrina morale cristiana.
L’insegnamento dei principi etici era
affidato, per lunga consuetudine, ai teologi
moralisti, ma ora sono proprio loro che
mettono in discussione la dottrina
tradizionale e perciò il papa intende
richiamare i vescovi al dovere della
vigilanza, perché “fa parte del nostro
ministero pastorale vegliare sulla
trasmissione fedele di questo insegnamento
morale e ricorrere alle misure opportune
perché i fedeli siano custoditi da ogni
dottrina e teoria ad esso contraria. In
questo compito siamo tutti aiutati dai
teologi; tuttavia, le opinioni teologiche
non costituiscono né la regola né la norma
del nostro insegnamento. La sua autorità
deriva, con l'assistenza dello Spirito Santo
e nella comunione cum Petro et sub Petro,
dalla nostra fedeltà alla fede cattolica
ricevuta dagli Apostoli”(n 116).
Il bersaglio dell’enciclica sono esattamente
i moralisti cattolici, a cui il papa nega il
diritto alla libera ricerca teologica. Il
loro eventuale dissenso, esclusa a priori
l’ipotesi che possa essere ben motivato, è
sempre un’inaccettabile disobbedienza: “Il
dissenso, fatto di calcolate
contestazioni e di polemiche attraverso i
mezzi della comunicazione sociale, è
contrario alla comunione ecclesiale e alla
retta comprensione della costituzione
gerarchica del Popolo di Dio.
Nell'opposizione all'insegnamento dei
Pastori non si può riconoscere una legittima
espressione né della libertà cristiana né
delle diversità dei doni dello Spirito”(n
113).
Verità per decreto
Bandito quindi il pluralismo teologico,
dagli studiosi cattolici si esige l’assoluta
fedeltà ai principi contenuti
nell’enciclica, il cui valore dogmatico è
ribadito più volte: “Ciascuno di noi conosce
l'importanza della dottrina che rappresenta
il nucleo dell'insegnamento di questa
Enciclica e che oggi viene richiamata con
l'autorità del successore di Pietro”(n 115).
Chi si aspettasse una confutazione degli
errori dei teologi fondata su solidi
argomenti razionali resterebbe però deluso.
Per la condanna di buona parte della
teologia morale contemporanea l’enciclica si
basa sostanzialmente sul principio di
autorità. Il punto di partenza è sempre la
Scrittura, ma letta senza tener minimamente
conto delle acquisizioni dell’esegesi
biblica contemporanea, e l’argomento
principale, se non l’unico, è che le nuove
idee sono in contrasto con la fede, così
come è stata interpretata dalla tradizione e
proposta dal magistero. La tesi, ad esempio,
per cui “la concezione tradizionale della
legge naturale [...] presenterebbe come
leggi morali quelle che in se stesse
sarebbero solo leggi biologiche”(n 47) è
inaccettabile perché “Questa teoria morale
non è conforme alla verità sull'uomo e sulla
sua libertà. Essa contraddice agli
insegnamenti della Chiesa”(n 48).
La persona umana è unità di corpo e anima, e
perciò “Una dottrina che dissoci l'atto
morale dalle dimensioni corporee del suo
esercizio è contraria agli insegnamenti
della Sacra Scrittura e della Tradizione”(n
49). E ancora, a proposito del rapporto tra
libertà e legge: “le tendenze culturali
sopra ricordate, che contrappongono e
separano tra loro la libertà e la legge ed
esaltano in modo idolatrico la libertà,
conducono ad un'interpretazione
«creativa» della coscienza morale, che
si allontana dalla posizione della
tradizione della Chiesa e del suo
Magistero”(n 54).
E poiché insegnanti e medici cattolici
spesso si allontanano dalle posizioni della
tradizione ecclesiastica e del magistero
romano, bisogna, a norma di diritto
canonico, intervenire d’autorità per
richiamarli all’ordine: “Una particolare
responsabilità si impone ai Vescovi per
quanto riguarda le istituzioni cattoliche.
[...] Spetta a loro, in comunione con la
Santa Sede, il compito di riconoscere, o di
ritirare in casi di grave incoerenza,
l'appellativo di «cattolico» a scuole,
università, cliniche e servizi
socio-sanitari, che si richiamano alla
Chiesa”(n 116). È esattamente ciò che è
avvenuto nel corso degli ultimi anni.
Se si prova a ragionare
Peccato, perché i moralisti cattolici
avevano messo in discussione la nozione di
legge naturale sulla base di argomenti
razionali che forse meritavano una maggiore
attenzione. Essi hanno fatto notare che la
nozione di legge naturale è stata elaborata
- soprattutto ad opera di Tommaso d’Aquino
che ha ripreso i più significativi
contributi del pensiero greco - in un
contesto come quello medievale in cui i
costumi erano relativamente omogenei e il
ritmo della storia talmente lento che i
cambiamenti passavano inosservati, la
società era strutturata in quadri
decisamente statici e fortemente gerarchici
e la vita umana era soggetta ai processi
della natura, le cui leggi fisiche o
biologiche apparivano assolutamente
immodificabili. In tale contesto, è ovvio
che apparissero come fondati sulla natura
fatti quali la sottomissione della donna
all’uomo, la schiavitù o il legame
necessario tra sessualità e procreazione.
Ma è altrettanto ovvio che quei dati non
appaiono più ‘naturali’ nell’odierno
contesto culturale. Gli studi di etnologia e
di antropologia culturale hanno infatti
mostrato una tale varietà e una tale
mutevolezza nei comportamenti umani da
escludere l’assolutizzazione di costumi che
tutt’al più sono diffusi e stabili solo in
ben determinate regioni ed epoche. La
mentalità odierna poi, valorizzando libertà
e uguaglianza, abitua alla mobilità sociale
e non accetta più passivamente le
stratificazioni esistenti. La rivoluzione
scientifico-tecnologica, inoltre, ha reso
possibile un dominio dei processi fisici e
biologici tale da far tramontare
definitivamente l'idea di una natura
immodificabile.
La scienza, infatti, ha mutato non solo
l'idea che l'uomo aveva del mondo della
natura ma anche quella che aveva di sé;
l'essere umano si scopre oggi capace di
trasformare se stesso, la società in cui
vive e il mondo che lo circonda: «la natura
immutabile dell'uomo - osservava A. Bausola
già diversi anni fa - appare allora un mito,
proprio di società che non riuscivano a
mutare l'uomo; oggi si vede che l'immutabile
può mutare, che esso è solo il presente (e
il passato, prima creduto sempre tornante in
cicli che sembravano eterni) gratuitamente
assolutizzato» (Filosofia e
mondanizzazione, in A. Bausola,
Natura e progetto dell'uomo. Riflessioni sul
dibattito contemporaneo, Milano 1977, p.
5).
Pur facendo parte del mondo della natura,
l'uomo se ne distingue proprio per la sua
creatività e niente è più naturale che
l'esercizio di questa libertà creativa, che
può manifestarsi «nel dirigere in nuove
direzioni le tendenze, di fatto plastiche
nell'uomo, nel potenziare lo sviluppo di
certi impulsi piuttosto che di altri, e, al
limite, nel modificare la stessa natura
dell’uomo (modificando il soma, e con ciò
anche, forse, il sistema degli impulsi)» (Natura
e cultura, in Bausola, Natura e
progetto, pp. 64-65).
In un mondo che è stato trasformato dalla
rivoluzione scientifica e tecnologica, e che
ancor più lo sarà in futuro, l’uomo è perciò
ormai consapevole che il suo compito non è
quello di attuare un disegno già stabilito
ma, come scriveva negli anni settanta un
noto moralista cattolico, quello di
individuare il modello di umanità che merita
di essere perseguito in ciascuna epoca: «con
l'avvento della scienza e della tecnica
l'uomo sperimenta, in effetti, il suo potere
creatore. Secondo una nota espressione, egli
'umanizza' la natura e si umanizza lui
stesso trasformandola; la natura trasformata
lo trasforma a sua volta e modifica
profondamente la coscienza e la conoscenza
che egli ha di se stesso e della sua storia»
(R. Simon, Fonder la morale. Dialectique
de la foi et de la raison pratique,
Paris 1974, p. 149).
Con la teoria dell’evoluzione, infine, la
scienza ha modificato ancora più
radicalmente l’autocomprensione dell’uomo,
perché, come osserva Giannino Piana,
professore ordinario di Etica cristiana
nell’università di Urbino, “la natura
non risulta più espressione di un processo
razionale guidato nel suo divenire da
un’intelligenza, ma appare piuttosto come
una realtà in costante mutamento, in cui
affiorano deficienze e disfunzioni,
spiegabili soltanto come effetto di
aggiustamenti operati dalla selezione
naturale. Il che rende evidentemente poco
plausibile il ricorso a essa quale paradigma
per l’agire morale” (G. Piana, Si può
ancora parlare di ‘natura’? Considerazioni
antropologico-etiche, in
Aggiornamenti sociali, settembre-ottobre
2006, p 680).
E il Piana ricorda in una nota della
medesima pagina – ma io credo che il fatto
meri-terebbe ben maggiore rilievo – che “lo
stesso card. Ratzinger (oggi papa Benedetto
XVI) in un confronto con il filosofo tedesco
Juergen Habermas ha ammesso che ‘con la
vittoria della teoria dell’evoluzione [...]
che oggi in larga misura sembra
incontro-vertibile’ il richiamo tradizionale
al diritto naturale ‘purtroppo risulta
spuntato’, perchè è ormai evidente che ‘la
natura come tale [...] non è razionale’ (Habermas
J. – Ratzinger J., Etica, religione e
Stato liberale, in Humanitas, 2
[2004] 256 s.)”.
Una morale a misura d’uomo
La scoperta della straordinaria varietà,
nello spazio e nel tempo, delle convinzioni
morali, la creazione di un quadro
economico-sociale più libero e dinamico, la
diffusione della teoria evoluzionistica e
l'esperienza della capacità umana di
dominare i processi naturali hanno prodotto
dunque la consapevolezza ormai irreversibile
che i confini tra natura e cultura sono
molto meno netti di quanto non si credesse
un tempo. Infatti non ci si trova mai di
fronte alla natura nella sua immediatezza ma
sempre di fronte ad una natura già
interpretata - e interpretazioni e relative
valutazioni sono mutevoli - dall'uomo:
viene, cioè, di volta in volta dichiarato
‘naturale’ ciò che in una determinata
cultura appare tale. La linea di confine tra
natura e cultura si rivela perciò come un
prodotto della cultura stessa.
Se si riconoscono la storicità della natura
dell'uomo, la plasticità delle sue
inclinazioni fondamentali e la
reinterpretazione culturale di esse, le
conseguenze in campo morale sono
inevitabili. Rinunciando alla pretesa di
fornire precetti morali immutabili, si
assegnerà alla ragione il compito di trovare
di volta in volta soluzioni efficaci per i
problemi posti dall'esperienza, tenendo
conto dei valori di cui si ha consapevolezza
in un determinato momento storico, e che
proprio scelte inizialmente scandalose ed
esperienze inedite possono far emergere.
L’istanza morale può esprimersi allora in
maniera necessaria e immutabile non con
precetti che stabiliscono in modo definitivo
la liceità o meno di determinati
comportamenti ma solo con formule che
sottolineano il dovere di agire da uomini,
individuando ciò che va fatto qui e ora.
Tesi, questa, oggi comune tra gli studiosi
cristiani ma già presente sei decenni fa
nell’opera di un grande moralista cattolico
che, pur tra tanti condizionamenti, scriveva
anticipando i tempi: “non è obbligatorio
per la natura umana, e dunque per ogni
uomo, che quell’atto non compiendo il quale
egli decade necessariamente dalla sua
dignità umana”(J. Leclercq, Les grandes
lignes de la philosophie morale,
Louvain-Paris 1946, p 407).
I moralisti che aprono simili prospettive,
quindi, non ritengono affatto che tutto sia
lecito: al contrario, sono certi che sia
assolutamente necessario individuare criteri
che consentano di discernere ciò che è
eticamente legittimo da ciò che non lo è. Ma
tale criterio ha come fondamento non la
natura – delle cui leggi fisiche e
biologiche bisogna certo tener conto – ma
appunto la dignità dell’uomo: il nocciolo
duro dell’etica è il riconoscimento del
valore di ciò che la tradizione cristiana
indica col termine ‘persona’, un soggetto
cioè capace di pensare e di agire
liberamente, entrando in relazione con altre
persone. Morale è allora tutto ciò che ha
effetti umanizzanti per sé e per gli altri,
immorale ciò che attenta alla dignità
propria come degli altri esseri umani.
Posizione, questa, che forse è non solo la
più ragionevole ma anche la più coerente con
lo spirito evangelico.
Vangelo o potere
È lecito, allora, concludere che l’idea di
legge naturale non appartiene alla chiesa
cattolica intesa come popolo di credenti ma
solo a una gerarchia ecclesiastica che,
anche se gode, almeno in Italia, di grande
visibilità mediatica, è ben poco ascoltata
dai fedeli. Una gerarchia che, per mostrare
la granitica compattezza necessaria per
intervenire da protagonista sulla scena
pubblica, non esita a zittire i suoi teologi
e a separarsi dal popolo che pure vorrebbe
guidare.
La situazione, in effetti, è davvero
paradossale: mentre il messaggio evangelico
appare sempre più estraneo alla maggior
parte dei cittadini italiani, il Vaticano
esercita una crescente influenza sulle
istituzioni col suo tentativo di
condizionare, in nome di arcaici principi
morali spacciati per precetti naturali,
l’attività parlamentare, al punto da mettere
in pericolo la stessa laicità dello stato.
Non pare quindi peregrina l’ipotesi che la
riaffermazione vaticana dell’etica
tradizionale, sino allo scontro col sentire
morale di un’umanità che attribuisce ormai
alla coscienza la responsabilità delle
proprie scelte, serva, al di là delle
intenzioni soggettive, più che a
testimoniare il vangelo a mantenere il
prestigio di un’autorità che chiaramente non
potrebbe più pretendere assoluta obbedienza
se, mutando i suoi insegnamenti,
riconoscesse la propria fallibilità.
Non è facile, infatti, sostenere che il
cuore del messaggio evangelico sia
costituito dalla preoccupazione per la
famiglia e dalla conseguente
regolamentazione della sessualità. Pare,
piuttosto, che il vangelo insista su un
amore universale che ha come oggetto anche
gli estranei e addirittura i nemici: “amate
i vostri nemici e pregate per i vostri
persecutori [...]. Infatti se amate quelli
che vi amano, quale merito ne avete?”(Matteo
5, 44.46). E ciò che soprattutto ostacola
quest’amore non pare che sia il piacere
sessuale ma l’attaccamento alla ricchezza
(mammona, in ebraico): “nessun servo può
servire a due padroni: o odierà l’uno e
amerà l’altro oppure si affezionerà all’uno
e disprezzerà l’altro. Non potete servire a
Dio e a mammona”(Luca 16,13).
Eppure, in un mondo in cui classi dirigenti
che si dicono cristiane professano in realtà
la religione del denaro, e per accumulare
ricchezza provocano ogni anno milioni di
morti per fame, distruggono l’ambiente,
rilegittimano la guerra, fanno ricorso alla
pena di morte e praticano ormai senza pudore
la tortura, non è dato ascoltare dal
Vaticano una chiara parola di condanna:
“guai a voi, ricchi, perché avete già la
vostra consolazione”(Luca 6,24). Mentre la
nozione sempre meno credibile di legge
naturale viene utilizzata come una clava,
soprattutto in campo sessuale, per riprovare
quelle che vengono considerate colpe
private, le critiche rivolte ai responsabili
della cosa pubblica sono in molti casi
piuttosto timide e non impediscono
un’alleanza di fatto con chi ha il potere.
Due pesi e due misure
Nel giugno del 2004, per esempio, nel corso
della campagna per l'elezione del presidente
degli Stati Uniti, l'attuale pontefice,
allora prefetto della Congregazione per la
dottrina della fede, in un memorandum
riservato in lingua inglese indirizzato alla
conferenza episcopale americana scriveva: "Non
tutte le questioni morali hanno lo stesso
peso morale dell'aborto e dell'eutanasia.
Per esempio, se un cattolico fosse in
disaccordo col Santo Padre sull'applicazione
della pena capitale o sulla decisione di
fare una guerra, egli non sarebbe da
considerarsi per questa ragione indegno di
presentarsi a ricevere la santa comunione.
[...] Ci può essere una legittima diversità
di opinione anche tra i cattolici sul fare
la guerra e sull'applicare la pena di morte,
non però in alcun modo riguardo all'aborto e
all'eutanasia".
E infatti Benedetto XVI mantiene ottimi
rapporti con l’amministrazione Bush,
favorevole alla guerra e alla pena di morte
ma contraria all’aborto e all’eutanasia,
tanto che, ricevendo il 12 novembre 2005 il
nuovo ambasciatore degli Stati Uniti presso
la Santa Sede, gli ha rivolto parole di
apprezzamento per la politica americana:
''Confido che il vostro Paese continui a
dimostrare una leadership basata su un
deciso impegno in favore dei valori di
libertà, integrità, autodeterminazione,
mentre cooperate con varie istanze
internazionali che lavorano per costruire un
consenso autentico e sviluppano un'azione
unitaria nei confronti delle situazioni
critiche per il futuro dell'intera famiglia
umana''. Per la verità la leadership morale
americana appare oggi a milioni di uomini in
tutto il mondo sempre più compromessa
proprio dalle scelte dell’attuale
presidente!
Parimenti, in Italia il Vaticano intrattiene
relazioni cordiali con influenti personaggi
che, pur dichiarandosi non credenti, possono
orientare l’opinione pubblica e le scelte
politiche nella direzione gradita ai
difensori dell’etica tradizionale: saranno
magari assolutamente estranei allo spirito
evangelico, ma hanno il merito di elogiare
quello vaticano come alto magistero morale.
Con tali atei devoti le gerarchie
ecclesiastiche dialogano sempre amabilmente
mentre mostrano scarsa disponibilità nei
confronti dei credenti, come quelli che si
riconoscono nel movimento ‘Noi siamo chiesa’,
che esprimono delle riserve sul loro
operato.
Ciò che importa è che il parlamento non
legalizzi i comportamenti che il Vaticano
giudica contrastanti con la legge naturale.
E nell’Esortazione Apostolica
Postsinodale Sacramentum caritatis,
del febbraio 2007, Benedetto XVI indica come
valori non negoziabili “il rispetto e la
difesa della vita umana, dal concepimento
fino alla morte naturale, la famiglia
fondata sul matrimonio tra uomo e donna, la
libertà di educazione dei figli e la
promozione del bene comune in tutte le sue
forme”(n 83). Mentre la richiesta di
promuovere il bene comune è abbastanza
generica, e quindi lascia ampi margini di
manovra, si dichiara esplicitamente che non
sono possibili compromessi su questioni come
l’eutanasia o l’omosessualità.
I cittadini che, a giudizio del Vaticano,
hanno comportamenti devianti non debbono
aspettarsi dallo stato il riconoscimento del
loro diritto a vivere seguendo la propria
coscienza e, se cattolici, debbono subire
sanzioni ecclesiastiche come, per esempio,
l’esclusione dai sacramenti: “Il Sinodo dei
Vescovi - ricorda il papa nello stesso
documento - ha confermato la prassi della
Chiesa, fondata sulla Sacra Scrittura (cfr
Mc 10,2-12), di non ammettere ai
Sacramenti i divorziati risposati”(n 29).
Però, se non si può annullare il matrimonio
e la nuova convivenza appare irreversibile,
“la Chiesa incoraggia questi fedeli a
impegnarsi a vivere la loro relazione
secondo le esigenze della legge di Dio, come
amici, come fratello e sorella; così
potranno riaccostarsi alla mensa
eucaristica, con le attenzioni previste
dalla provata prassi ecclesiale”(ivi).
È possibile proporre a due persone
innamorate di amarsi come fratello e
sorella? La gerarchia ecclesiastica, con
sovrano sprezzo del ridicolo, risponde
affermativamente: perchè il nuovo matrimonio
si trasformi in una relazione lecita in
fondo si chiede ‘soltanto’ che i due
rinuncino ai rapporti sessuali! Un
atteggiamento flessibile nei confronti dei
poteri pubblici e inflessibile nel campo
della sfera privata, da regolamentare per
legge secondo i principi della morale
naturale proposta dal magistero: finché
persevererà su questa via, il Vaticano
manterrà certo il gradimento dei
rappresentanti delle istituzioni, desiderosi
a loro volta della benedizione pontificia,
ma apparirà sempre più lontano dal sentire
comune degli stessi credenti, nonostante
l’offensiva che Benedetto XVI intende
scatenare sul tema della legge naturale
grazie ai tanto attesi contributi della
Commissione teologica internazionale.
Elio
Rindone
www.italialaica.it
19-10-2007 |