Le tre questioni di Benedetto
 

GIOVANNI MICCOLI
 

Credo sia impensabile, nell'analizzare gli impegnativi discorsi tenuti dal presidente Ciampi e dal papa Benedetto XVI nel corso del loro recente incontro, prescindere dalle questioni e dai dibattiti relativi ai rapporti tra lo Stato e la Chiesa e alla laicità dello Stato, tornati alla ribalta durante la campagna per lo scorso referendum, ma anche dalle tendenze e dagli orientamenti espressi da esponenti non secondari delle istituzioni e del mondo politico italiano, volti da qualche tempo a enfatizzare il ruolo della Chiesa e del cattolicesimo in funzione di una riscoperta e di un rafforzamento dell'identità dell'Occidente, come si dice, e in vista, così parrebbe, di applicare alla realtà italiana quella saldatura tra politica e religione che negli Stati Uniti ha portato alla vittoria di George W. Bush. Né sembra d'altra parte che tali orientamenti e tendenze abbiano trovato ascoltatori distratti in alcuni ambienti curiali, più interessati, parrebbe, alle loro ricadute pratiche che al carattere degli interlocutori che se ne rendono protagonisti. Gli indizi significativi in questo senso non mancano. Per fermarsi soltanto ad alcuni recenti episodi solo apparentemente marginali, non mi risulta sia stata smentita la telefonata di plauso che il cardinale Ruini avrebbe fatto al ministro Maroni, secondo le dichiarazioni di quest'ultimo, per l'atteggiamento assunto dalla Lega nel recente referendum. Su altro piano resta quanto meno singolare, per non dire altro, la calda accoglienza fatta dal rettore del Pontificio ateneo lateranense, mons. Rino Fisichella, ad alcune dichiarazioni di Oriana Fallaci di plauso agli scritti di papa Ratzinger, dichiarazioni formulate in un contesto che ripropone con la consueta violenza la contrapposizione tra l'Europa e l'Islam, l'esaltazione per la politica di forza degli Stati Uniti, la condanna per l'imbelle degenerazione europea. «Non posso non provare un sentimento di contentezza intellettuale nel vedere una concordanza, espressa così vivacemente, tra la libera intelligenza della Fallaci e la libertà di pensiero di un grande teologo qual è Joseph Ratzinger» (così mons. Fisichella nell'intervita al Corsera)

Non vi è dubbio che i due discorsi di Ciampi e di Benedetto XVI presentano, vorrei dire oggettivamente, un peso e una portata diversi. Il presidente Ciampi ha riproposto con chiarezza alcuni principi che devono presiedere alle relazioni tra i due poteri, ha riaffermato con orgoglio la laicità della Repubblica, ma non poteva andare molto oltre. Non spetta a lui infatti dettare la politica del governo e delle istituzioni dello Stato, né è da lui dunque che dipende l'attuazione pratica di quei principi. Non è così per Benedetto XVI, che al di là di tutti i condizionamenti esercitati dai diversi episcopati e realtà nazionali, resta ancora il responsabile ultimo degli orientamenti e delle scelte della Chiesa. È sul suo discorso dunque che merita soprattutto soffermarsi. Senza entrare in un'analisi complessiva, tre mi sembrano i punti che vi assumono un particolare rilievo: l'accezione di laicità, il richiamo alle radici cristiane, la questione della scuola. Laicità è un termine del lessico politico entrato largamente in uso nel corso del secondo dopoguerra per esprimere, da parte di settori importanti del mondo cattolico, la sostanziale accettazione dei processi di secolarizzazione verificatisi nelle società europee tra il XIX e il XX secolo. Non manca peraltro di accezioni e applicazioni diverse. In linea generale comunque si può dire che il concetto di laicità dello Stato si distingue e intende distinguersi dall'allora più comune e assai più militante concetto di laicismo. Esso infatti afferma sì la piena neutralità dello Stato rispetto a tutte le fedi e le confessioni religiose (ma anche rispetto alle ideologie politiche), perseguendo dunque un sostanziale separatismo tra Stato e Chiesa, ma nello stesso tempo non pretende di ridurre la religione, secondo la tradizione liberale, ad un fatto meramente privato, perché le riconosce il pieno diritto ad uno spazio pubblico, né esclude accordi su determinate materie in vista del bene comune. La laicità dello Stato mira dunque a garantire la civile convivenza e il pieno reciproco rispetto tra fedi e visioni del mondo diverse, ad assicurare per parte sua luoghi pubblici esenti da posizioni privilegiate per l'una o l'altra di esse, e nello stesso tempo afferma la piena autonomia dello Stato nella formulazione delle proprie leggi e dei propri ordinamenti, considerando indebita ogni ingerenza che pretendesse, in nome dell'una o dell'altra di quelle fedi, imporre o cercare di imporre una norma piuttosto di un'altra.



Dialogo nella laicità

Sono dunque principi e criteri di grande rilievo, nel senso che mirano ad evitare contaminazioni e strumentalizzazioni reciproche tra religione e politica, a vantaggio, si dovrebbe pensare, di quella che vorrei chiamare la pulizia e l'onestà civile e intellettuale dell'una e dell'altra. E sono principi e criteri più che mai importanti in prospettiva futura, a fronte del progressivo, inevitabile formarsi di società con presenze di etnie e religioni diverse, che nella laicità dello Stato debbono trovare, con la garanzia di essere rispettate, la sede propria per forme di dialogo e di incontro reciproco ma anche un fermo limite ad ogni tentazione di prevaricazione o di mutua sopraffazione, per la leale accettazione da parte loro di quei valori e di quei comportamenti propri di un sistema politico retto da principi democratici e pluralisti. E tuttavia, si deve aggiungere, alla chiarezza della definizione concettuale corrisponde una prassi assai più complessa e difficile, nel senso che la laicità si basa in primo luogo sulla consapevolezza e le volontà dei diversi protagonisti di rispettarne e di attuarne sino in fondo i principi e i criteri. E dunque sono principi e criteri costantemente messi alla prova, chiamati costantemente ad una verifica e ad un'applicazione oculata nelle svariate situazioni concrete che possono presentarsi; principi e criteri che richiedono ai protagonisti di entrambi i versanti un'attenzione costante e una sensibilità acuta rispetto ai margini spesso labili che possono assicurare una reale attuazione della laicità o la sua infrazione e smentita.

Ed è a questo riguardo che la tradizione politica italiana presenta non da oggi una particolare fragilità, per l'irresistibile tendenza di troppi dei suoi attori a sollecitare dalla gerarchia e dal clero appoggio e legittimazione per le proprie opzioni e i propri orientamenti, così come da parte della Chiesa italiana emerge la ricorrente tentazione di metterne in discussione l'applicazione e di superarne di fatto i limiti. Un esempio lo si è avuto nella campagna per il recente referendum, non perché la gerarchia vi abbia enunciato la propria dottrina sui diritti dell'embrione, sulla procreazione assistita e via dicendo, ma perché ha preteso di scendere sul terreno operativo, dettando in termini pressoché autoritari, ad opera di alcune sue voci autorevoli, la tattica da seguire e le scelte da compiere ad opera dei «veri cattolici». Rappresenta in effetti una mistificazione interessata affermare che con tali rilievi si vorrebbe impedire alla gerarchia di parlare: pieno il suo diritto di parlare, non altrettanto, in un contesto di laicità, quello di indicare ai cittadini le tattiche da seguire e nemmeno, direi, quello di mostrare le scelte concrete da compiere: perché si tratta di un terreno quantomeno delicato, che implica inevitabilmente un suo schierarsi nell'agone politico, sottraendo tra l'altro ai laici cattolici quella primaria responsabilità di operare essi nelle realtà temporali che pur il concilio Vaticano II tendeva a riconoscere loro.

Già queste considerazioni mostrano con chiarezza come si tratti di questione non risolvibile semplicemente con leggi e ordinamenti ma con il pieno riconoscimento e la diffusa sensibilità per il valore che la laicità rappresenta per la vita di tutti e dunque riaffermandone i diritti con la forza dell'argomentazione persuasiva prima e più che con l'arma della polemica, peggio dell'ironia o dell'insulto reciproco. Benedetto XVI si è richiamato al concilio Vaticano II per riconoscere la legittimità di una «sana laicità dello Stato in virtù della quale le realtà temporali si reggono secondo le norme loro proprie». Meno pertinente, diciamo così, il suo richiamarsi a questo proposito anche ai Patti Lateranensi, di cui tutto si può dire, ma non certo che riconoscessero la laicità dello Stato. Non è un caso che il presidente Ciampi si sia riferito all'articolo 7 della Costituzione, dove il loro richiamo assume nonostante tutto un ben diverso significato. Ma Benedetto XVI ha anche ritenuto di dover aggiungere: «senza tuttavia escludere quei riferimenti etici che trovano il loro fondamento ultimo nella religione». E precisando ulteriormente ha ribadito, perché non sussistessero equivoci, che «l'autonomia della sfera temporale non esclude un'intima armonia con le esigenze superiori e complesse derivanti da una visione integrale dell'uomo e del suo eterno destino». Senza voler forzare un dettato articolato e sfumato e, parrebbe, volutamente generico, sembra difficile non vedere riaffiorare in tali precisazioni la rivendicazione per la «religione», in quanto portatrice di una «visione integrale dell'uomo e del suo eterno destino», del diritto di dettare essa ed essa soltanto, alla luce delle proprie dottrine, i contenuti etici delle norme emanate dallo Stato.



Limiti di intervento

Viene riproposta così, e sia pure implicitamente, quella «competenza delle competenze» che riserva al magistero della Chiesa l'esclusivo diritto di stabilire i limiti entro i quali vanno mantenuti i propri interventi. E sembra insieme riconfermata l'idea che il proprio deposito di fede, in quanto dotato di una visione integrale dell'uomo e del suo destino, sia esso soltanto deputato e in grado di stabilire in ultima istanza su quali norme e su quali orientamenti debba organizzarsi la vita collettiva. Nel momento in cui la coscienza di sé e della verità di cui ci si sente portatori rivendica il proprio diritto/dovere, reclamandone insieme il riconoscimento altrui, non di giudicare ma di dettare o ispirare le norme regolatrici della vita associata, sembra evidente che si sta fuoriuscendo, se non si è ormai già fuori, da una concezione e da una prassi di laicità. Benedetto XVI si è soffermato anche sui «valori cristiani» di cui è permeata la cultura italiana, ha espresso la «fiducia che l'Italia, sotto la guida saggia ed esemplare di coloro che sono chiamati a governarla, continui a svolgere nel mondo la missione civilizzatrice nella quale si è tanto distinta nel corso dei secoli», e si è augurato che essa aiuti l'Europa «a riscoprire quelle radici cristiane che le hanno permesso di essere grande nel passato e che possono ancora oggi favorire l'unità profonda del Continente».

La questione delle radici cristiane non è nuova. Emersa con forza nelle discussioni intorno alla Costituzione europea, ritorna periodicamente anche nei discorsi di alcuni autorevoli esponenti politici e di ascoltati pubblicisti a sorreggere la richiesta di riconoscerne l'indiscutibile realtà, al fine di conferire per loro tramite una più forte e consapevole identità ai popoli europei, quasi in funzione di nuovo antemurale alla temuta pressione islamica. Sarebbe un'indebita forzatura assimilare senz'altro a tali prospettive il richiamo di Benedetto XVI. Resta però il richiamo in quanto tale. Confesso al riguardo tutta la mia perplessità soprattutto per le molteplici conseguenze che in tale richiamo sembrano più o meno implicite.. E non tanto dunque perché, comunque sia, quelle radici, com'è stato osservato, non sarebbero esclusive, ma in particolare per due ordini di ragioni. Da una parte mi pare difficile negare che la storia d'Europa è stata teatro di una presenza cristiana varia e mutevole nel corso del tempo nell'ambito stesso della Chiesa cattolica, una presenza inoltre sempre più frammentata, conflittuale, divisa, portatrice di valori e di prospettive spesso radicalmente opposte. Non vedo dunque come essa sia riducibile ad una formula genericamente unitaria, perché molti sono i «cristianesimi» cui si può fare riferimento. Inoltre non mi sembra affatto positivo, vorrei dire in primo luogo per la religione, fare di essa un elemento identitario di un popolo o di una società. Le esperienze del passato offrono un ricco campionario dei guasti che processi del genere non hanno mancato di produrre sia per la vita civile sia per la vita religiosa. Ci sono voluti secoli di lotte dolorose per liberare le società europee da quell'intreccio tra religione e pubblici poteri sul quale si fondava il tentativo di conferire a un popolo un volto conforme alle norme dettate da un credo religioso, di conferirgli appunto una presunta identità cristiana. E oggi di nuovo si pretende di ricavare da ciò che avviene in molti paesi dell'Asia e dell'Africa, dove l'islam aspira ad affermarsi come il fattore identitario di quei popoli, il modello che l'Europa dovrebbe recuperare per far fronte alle minacce altrui. Sarebbe un ritorno a forme più o meno aggiornate di quel regime di cristianità che ha ampiamente fatto il suo tempo, e la conseguente perdita di una delle conquiste più significative della civiltà europea.

Scuola come palestra

L'ultima questione che vorrei toccare riguarda la scuola. Benedetto XVI ne ha parlato come parte delle tre preoccupazioni che accompagnano l'inizio del suo servizio pastorale: la tutela della famiglia, la difesa della vita dal suo concepimento fino al suo termine naturale, e appunto la scuola «palestra indispensabile per la formazione delle nuove generazioni». Le prime due riguardano questioni ampiamente dibattute nel corso del recente referendum, e perciò le tralascio. In riferimento alla scuola egli ha osservato che «la sua funzione si connette alla famiglia come naturale espansione del compito formativo di quest'ultima. A questo proposito, ferma restando la competenza dello Stato a dettare le norme generali dell'istruzione» egli ha auspicato che «venga rispettato concretamente il diritto dei genitori ad una libera scelta educativa, senza dover sopportare per questo l'onere aggiuntivo di ulteriori gravami». Viene riproposta così la questione del finanziamento delle scuole private ad opera dello Stato, ciò che com'è noto la Costituzione italiana intendeva escludere, con grande scandalo già allora dell'associazionismo cattolico, che usò parole di fuoco contro i deputati della democrazia cristiana che non avevano saputo imporlo. Benedetto XVI ha formulato un «auspicio», e non si può certo contestargli il diritto di esprimerlo. La questione dunque sta nel vedere se e in quale misura esso dovrebbe essere accolto. Esponenti politici di entrambi gli schieramenti si sono affrettati a rivendicare ciò che al riguardo si è già concesso in passato o si intende concedere per l'avvenire: indizio significativo, questa non richiesta fretta da primi della classe, di quella irresistibile tentazione cui già ho accennato di guadagnarsi in ogni modo nuove ragioni di appoggio da parte delle gerarchie ecclesiastiche, in un gioco al rialzo che la diaspora cattolica nei due schieramenti che si fronteggiano ha paradossalmente finito per favorire. La questione è indubbiamente complessa. Furbeschi aggiramenti del dettato della Costituzione non depongono a favore del suo dovuto rispetto e del senso dello Stato da parte della nostra classe politica. La questione potrebbe essere risolta prevedendo una detrazione nell'annuale dichiarazione dei redditi di tutte o in parte le spese scolastiche sostenute dalle famiglie. Ma il vero impegnativo problema per la formazione dei giovani e le future condizioni della nostra società non mi pare stia propriamente qui. Perché altra è la domanda che ci si deve porre. Se cioè è positivo incentivare un allargamento e potenziamento delle scuole private con il conseguente ulteriore indebolimento della già sufficientemente disastrata scuola statale, favorendo così inevitabili separatezze all'interno del mondo giovanile; o se invece proprio la crescente presenza di immigrati nel nostro paese, con tradizioni, culture, confessioni religiose molto diverse, non rende più che mai urgente un effettivo potenziamento di essa, come principale se non unico luogo in cui i giovani delle più diverse provenienze possono incontrarsi e confrontarsi creando lentamente forme di integrazione reciproca e accettazione di regole di convivenza condivise. É un'operazione certo delicata e di grande difficoltà ma essenziale per la stessa futura tenuta della compagine sociale. Nel contesto della scuola statale le religioni stesse potrebbero trovare un loro spazio per un libero insegnamento confessionale al di fuori dell'orario scolastico, secondo quanto era stato proposto già ai tempi della revisione del concordato e prima che si arrivasse al misero compromesso del mantenimento dell'ora di religione, con lo spettacolo non propriamente edificante che ne seguì della «battaglia» tra «laici» e «cattolici» intorno alla collocazione oraria che quell'insegnamento doveva occupare.

È intorno a tali questioni che una classe politica pienamente conscia dei suoi doveri dovrebbe dare una risposta. Le esperienze del passato non incoraggiano peraltro la speranza che l'Italia possa finalmente godere di un governo che ponga di fatto e non solo a parole il problema della scuola di Stato tra le sue più urgenti priorità.

 

il manifesto 29/6/05