LE SCELTE RELIGIOSE NELL’ERA POSTIDEOLOGICA

 

La scelta del Non possumus di Pio IX, da parte dell’Avvenire, come bandiera di intransigenza sulla questione dei Pacs non sembra molto felice: tutti sanno che dopo quei ripetuti Non possumus è venuta Porta Pia, la perdita del potere temporale della Chiesa e poi ancora, dopo un secolo circa, il riconoscimento solenne da parte di un Papa del carattere provvidenziale di quella perdita. Cosa significa oggi, nel XXI secolo, con i problemi di dimensione pla­netaria che incombono sull’umanità, di convivenza fra popoli, civiltà e religioni, di vivibilità del pianeta stesso, in una prospettiva non più remota ma calcolata ormai in termini di decenni, questo richiamo ad una intransigenza smentita dalla storia e che è invece costata tanto, in termini civili e religiosi, al Paese?

Intransigenza, oggi, su cosa? Più che giusta, certo, l’intransigenza sul valore della famiglia e del matrimonio e merito della Chiesa la costante difesa di questi istituti. Lo stesso Presidente della Repubblica, con l’auspicio, troppo presto lasciato cadere, di una intesa con la Chiesa ha riconosciuto ed esaltato il suo ruolo.

Ma qui si tratta di una realtà nuova: le convivenze ci sono e si diffondono; il legislatore non può ignorarle; sono un problema su cui anche la Chiesa dovrebbe riflettere a fondo, per comprenderne le ragioni e cer­care le giuste risposte pastorali; cosa significa irrigidirsi sui modi in cui le convivenze devono essere certificate in anagrafe se non scivolare in un formalismo alla fine incomprensibile?

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La domanda che io porrei è un’altra: dove va la chiesa italiana?

Sono evidenti i costi religiosi della via intrapresa: una Chiesa che parla dei pacs più che del mistero di Cristo morto e risorto e della sfida radicale che la sua presenza nella storia umana ha rappresentato e rappresenta farà fatica ad interessare a lungo le nuove generazioni. In una società in cui si moltiplicano i segni di un profondo disfacimento morale, in cui i ragazzi minorenni si socializzano per bande per scontrarsi in prove di violenza, in cui la cronaca ci offre ogni giorno episodi raccapriccianti di crudeltà e di egoismo, una Chie­sa come quella che ho appena descritto sarebbe fatalmente condannata alla irrilevanza.

Ma per fortuna già oggi, già qui nel nostro Paese, non è questo o non è solo questo la Chiesa. La voce dell’Avvenire non è la voce della Chiesa italiana e neppure indistintamente dei suoi vescovi. C’è una religiosità popolare che pur in forme talvolta vicine alla superstizione conserva riserve profonde di umanità e di solidarietà. Vi è un fenomeno imponente di volontariato cristiano del tutto estraneo nella sua cultura e nella sua prassi ad ogni disegno di egemonia. Vi sono riserve e istituzioni culturali non chiassose ma radicate nel tessuto sociale e aperte sempre più al dialogo e alla collaborazione.

Il problema è che queste realtà stentano ad emergere a farsi sentire e vedere di fronte alle voci ufficiali della gerarchia. Se è consentito il paradosso vi è ormai in Italia una Chiesa del silenzio che soffre di una sorta di emarginazione ufficiale ma che rappresenta la riserva per la vera alternativa.

E la alternativa è appunto quella di una Chiesa che nel suo insieme torni ad essere testimone non di un progetto di egemonia culturale ma semplicemente dell’evento cristiano; che parli del mistero di Dio in termini comprensibili alla cultura del nostro tempo (e mi rendo conto che non è facile); che torni ad occuparsi, come ha fatto nei secoli, del problema della formazione della gioventù in forme adeguate ai nuovi tempi; che valorizzi tutti quegli spazi della sussidiarietà oggi unanimemente riconosciuti anche a livello europeo; che non chieda privilegi ma offra il suo servizio senza esi­gere il timbro della cattolicità. E ancora: che sappia vedere prima di ogni aspetto teorico la realtà della sofferenza umana.

Confesso che io speravo che il convegno di Verona - e lo scrissi su queste pagine - potesse essere l’inizio di una svolta, di una riscoperta di una cultura e di una spiritualità perduta o dimenticata. Non mi sembra, per ora almeno, che sia stato così.

Il problema non è solo quello di aspettare passivamente che qualcosa accada. Ma di esistere e di agire e per quella che ho chia­mato paradossalmente chiesa del silenzio far sentire la propria voce. Penso che la tenuta dell’U­nione e in particolare della Mar­gherita e in essa dei deputati cat­tolici, di cui leggo sui giornali, su un progetto sulle convivenze di fatto equilibrato e moderato, ma coerente con gli impegni presi di fronte all’elettorato, sia un contributo non solo alla unità del centro sinistra e alla laicità dello Stato, ma anche un servizio alla Chiesa per trarla fuori da un sen­tiero senza uscita.

 

Pietro Scoppola     La Repubblica del 9 febbraio 2007