Le ronde e
l'identità nazionale
La cultura politica che fa da collante delle norme che compongono la nuova
legge sulla sicurezza è
l'intolleranza e l'idea illiberale che la cittadinanza sia un privilegio che può
essere usato a
discrezione della maggioranza allo scopo di individuare e allontanare o colpire
i nemici della nostra
"civiltà". Chi abbia voglia e tempo di scorrere i vari blog che
commentano (e molto spesso
difendono) la legge potrà trovare due argomenti che tornano regolarmente:
innanzi tutto che
l'istituzione delle ronde è un provvedimento che intende far fronte non tanto
alla sicurezza in senso
generico, ma invece al rischio di insicurezza che viene dagli immigrati, un
rischio che infatti si
presume alto nelle aree metropolitane dove gli immigrati vivono più numerosi;
in secondo luogo
che questi provvedimenti "duri" siano una risposta legittima della nazione
italiana nel tentativo di
difendere la sua propria identità cristiana. Il paradosso di questi due
argomenti è che contengono un
messaggio che mette in evidenza la debolezza, non la forza, della nostra
identità nazionale. L'esatto
contrario di quanto la propaganda di governo proclama.
Il primo argomento è frutto di un ragionamento che è
assolutamente pregiudiziale oltre che
facilmente disposto al razzismo: esso presuppone una relazione causale tra la
sicurezza e la
presenza di persone riconoscibili come non italiani. Ma occorrerebbe riuscire a
capire quali dati
esteriori verranno utilizzati per decretare a occhio nudo - quello delle ronde -
chi è italiano e chi no,
visto che gli italiani non sono propriamente tutti alti, biondi e con gli occhi
azzurri, né che d'altra
parte tutti gli extra-comunitari sono vestiti con tuniche o turbanti.
L'assunto che sta dietro questa
brutta legge è che il dato esteriore è sufficiente a creare una situazione di
allerta – e il dato esteriore
è quello che pertiene a come un individuo si mostra al passante (e a chi fa
parte delle ronde che
cammina per le strade alla ricerca di fatti e persone sospette). Sarebbe utile
sapere quali istruzioni
verranno date ai rondisti; se per esempio verranno istruiti secondo "profili"
razziali o etnici; e chi
crea questi profili e su quali dati etnografici. E sarebbe ancora più
interessante sapere se chi farà
parte delle ronde debba essere edotto delle tradizioni regionali di tutta
l'Italia per non incorrere nel
rischio di considerare straniero e quindi meritevole di sospetto chi proviene,
per esempio, dalla
Lucania (come si legge in uno spassosissimo blog che propone che per iscriversi
alle ronde lucane
sia necessario essere dotati "di armi a proiettili sonori (zampogne, tamburelli,
arpe, organetti, cupa
cupa) e biochimiche (salsicce, aglianico, formaggio di moliterno, provolone di
podolica, ecc...)... e
essere in grado di fare secondo l'uso antico Strascinati e ragù, peperoni
crusc-chi, susamele,
Zafarata e Strazzata". Se non fosse per le implicazioni illiberali e razziste,
questa legge meriterebbe
di essere sepolta con una risata.
Il secondo argomento è più serio ma anch'esso mostra quanto
sia complicato definire in che cosa
consista la nostra identità nazionale. A favore di questa legge e del
pregiudizio contro la
multiculuralità, si legge spesso che l'Italia ha il diritto di difendere
la propria identità culturale la
quale è cattolica. L'invasione di altre "razze" e "fedi" genera una
pericolosa commistione che può
alla lunga portare al relativismo ovvero alla fine dell'indiscussa "nostra
tradizione cristiana" e
quindi anche della "nostra civilità nazionale". Dove è interessante vedere
che l'Italia pare avere una
identità solo nella sua religione – del resto, come abbiamo visto sopra, le
tradizioni nostrane sono
così tante e diverse che parlare di una cultura nazionale omogenea è a dir poco
insensato. Quindi,
rispetto al nostro pluralismo culturale (sul quale i leghisti hanno costruito il
loro successo), la
religione pare la sola nostra unità di cultura. L'esito di questo
discorso è molto dubbio perché può
giustificare una politica dell'intolleranza religiosa (non è forse vero
che in alcune nostre città chi
vuole pregare Hallah deve arrangiarsi in capannoni e luoghi di fortuna
perché non gli è concesso di
avere un luogo di culto?). Alla base di questo argomento vi è la confusione o
l'identificazione tra
fede e tradizione culturale: per esempio si legge in un blog che "difendere la
nostra tradizione
cristiana significa difendere noi stessi, la nostra storia perché noi ci
fermiamo la domenica e non il
venerdì, perché non abbiamo ammesso nella nostra società la poligamia, perché
non accettiamo
l'infibulazione delle donne, i matrimoni combinati tra bambini, siamo per la
parità tra uomo e
donna, noi crediamo nella libertà religiosa. Siamo figli della nostra
civiltà e la nostra civiltà è figlia
di quelle radici giudaico-cristiane. Affermare queste radici non significa fare
un atto di fede,
significa difendere noi stessi".
Occorrerebbe uno spazio più ampio per confutare questo
coacervo di contraddizioni e insensatezze.
Ma alcuni punti almeno possono essere evidenziati. Primo punto: per essere
contrari
all'infibulazione, ai matrimoni combinati tra bambini, alla parità tra uomo e
donna non è necessario
essere credenti cattolici: sono i diritti individuali, di tradizione liberale e
illuministica, che ci hanno
dato questa civiltà (spesso imponendosi contro le religioni costituite).
Allora, è la Costituzione la
nostra vera tradizione unitaria di civiltà – la quale può essere abbracciata da
tutti, anche da chi non è
cristiano o credente. Secondo punto: che il diritto occidentale abbia radici
giudaico-cristiane è non
solo scorretto (ha anche radici greco-romane che sono precedenti alla
cristianizzazione) ma anche
irrilevante in questo caso. Perché il fatto che la tradizione liberale dei
diritti sia (anche) l'esito
storico della secolarizzione del cristianesimo non implica concludere che ci sia
identità tra cultura
religiosa e cultura liberale o laica, e che difendere le radici religiose sia lo
stesso che difendere noi
stessi e i nostri diritti.
Questa identificazione etnico-politica della religione (essere italiani
equivale a essere cattolici) è
estremamente problematica qualora si voglia davvero difendere la tolleranza.
Usare la religione
come arma per marcare la differenza tra la cultura nazionale della maggioranza e
le culture degli
altri (siano essi parti minoritarie della nazione o immigrati) può infatti
facilmente trasformare la
questione della tolleranza in una questione di intolleranza. E benché
gli italiani non siano diventati
col tempo più religiosi, tuttavia si assiste spesso all'uso della religione come
strumento di lotta
culturale. Un esempio eloquente è una decisione resa nel 2005 dal Tar del
Veneto nell'atto di
respingere la richiesta di alcuni genitori di rimuovere il crocifisso dalle aule
della scuola elementare
pubblica frequentata dai loro figli. Il Tribunale giustificó quella decisione
dando un'interpretazione
nazionalistica della tolleranza, ovvero sostenendo che il crocifisso è un
simbolo non di una
confessione semplicemente ma della cultura italiana e che inoltre è un simbolo
di tolleranza perché
rappresenta una denuncia dell'intolleranza religiosa. C'è da dubitare che
un fedele che crede con
sincerità desideri veder trasformato un simbolo religioso in un simbolo secolare
(cultural-nazionale)
e che accetti di buon grado che un'istituzione dello Stato si incarichi di dare
una definizione
autorevole su come interpretare un simbolo religioso. Ciò dimostra che
lo zelo nazionalista non è di
sostegno alla tolleranza neppure di chi è cattolico. La propaganda roboante che
ha fatto da
giustificazione alla nuova legge sulla sicurezza nasconde una debolezza
identitaria della nostra
cultura civile che la maggioranza cela dietro la radicalizzazione del confronto
«duro» e «cattivo»
con le minoranze culturali e religiose. Non è del resto ironico che a
volere fortemente questa legge
nazionalista sia stato un ministro il cui partito che ha fatto della propaganda
anti-nazionale e antiitaliana
le ragioni della sua stessa esistenza?
Nadia Urbinati la Repubblica 22 luglio 2009