Le ragioni del dubbio
Il
nuovo libro di Gustavo Zagrebelsky per una morale a misura d´uomo
S´intitola "Contro l´etica della verità" È una critica molto netta alle
credenze assolute di ogni religione
C´è anche una presa di distanza dallo scetticismo radicale tipico del nostro
tempo
Solo l´inquietudine dell´intelletto di fronte alla fede rende possibile il
dialogo coi laici
Contro l´etica della verità, l´ultimo libro di Gustavo Zagrebelsky (Laterza,
pagg. 172, euro 15) pronuncia finalmente una parola chiara sia contro l´etica
che discende da una verità assoluta come sono solite proclamarla le religioni
compresa la religione cristiana, sia contro lo scetticismo radicale tipico
dell´atmosfera nichilista che caratterizza il nostro tempo. La tesi è che il
dubbio, da cui discende l´etica del dialogo tra posizioni differenti e spesso
contrastanti, non è il contrario della verità, ma un omaggio che le si fa a
partire dal riconoscimento che la conoscenza umana non è mai una conoscenza
perfetta. Come ci ricorda Jaspers nel suo grande libro Sulla verità (che nessun
editore ha avuto ancora il coraggio di tradurre in italiano): «Noi non viviamo
nell´immediatezza dell´essere, perciò la verità non è un nostro possesso
definitivo. Noi viviamo nell´essere temporale, perciò la verità è la nostra
via».
Lungo questa via incontriamo anche il dubbio radicale degli scettici che si
astiene dall´affermare di ogni cosa che sia vera o sia falsa. Il dubbio che
propone Zagrebelsky lungo il sentiero della verità non ha nulla a che fare con
il dubbio scettico, perché, a differenza di quest´ultimo, non si astiene dal
giudizio, ma lo promuove attraverso il dialogo, con l´avvertenza che la verità a
cui si giunge è suscettibile di essere di continuo riesaminata e riscoperta.
Quindi relativismo, contro l´assolutismo delle religioni, e di questi tempi
anche della religione cattolica.
Dico di questi tempi perché il pensiero cristiano, nelle sue più alte
espressioni teologiche, ha sempre sostenuto una verità mai disgiunta dal dubbio.
Agostino, ad esempio, nel De praedestinatione sanctorum scrive che «La fede
consiste nella volontà di credere». Secoli dopo Tommaso d´Aquino torna a
sottolineare il carattere volontaristico dell´assenso fideistico in cui
l´intelletto è «terminatus ad unum ex estrinseco (ex voluntate)» e non «ut ad
proprium terminum» (ossia dell´evidenza del contenuto). Sempre Tommaso, nel De
fide, commentando san Paolo, osserva che la fede conduce «in captivitatem omnem
intellectum» cioè rende l´intelletto prigioniero di un contenuto che non è
evidente, e quindi gli è estraneo (alienus), sicché l´intelletto è inquieto di
fronte alla fede.
Sembra che il magistero di Ratzinger e dei cattolici che lo seguono e lo fanno
proprio non soffra più di questa inquietudine. E allora come è possibile una
convivenza o un dialogo tra i laici che cercano la verità con la cautela del
dubbio e i cattolici che, accolta la verità enunciata dal magistero
ecclesiastico, la assumono come assoluta e non tollerano di essere sfiorati dal
minimo dubbio? Non è qui in gioco la democrazia come libero confronto di
opinioni? E che ne è della tolleranza tanto rivendicata contro il
fondamentalismo, quando uno dei dialoganti si arresta ogni volta che si imbatte
in una verità di fede? Ma soprattutto che significa una «verità di fede»? Non è
questa una contraddizione in termini? La fede, infatti, crede perché non sa. Tra
fede e sapere non c´è quindi compatibilità. Le due cose non possono convivere
usurpando l´una le prerogative dell´altro.
La verità, in quegli ambiti molto limitati in cui può essere raggiunta, è
intollerante, perché non tollera posizioni diverse da quanto è stato accertato,
come in matematica, in fisica, in biologia e in generale in ambito scientifico,
ma la fede, proprio perché si fonda sulla volontà di credere e non su prove da
chiunque verificabili, non può che essere tollerante. Dove per «tolleranza» non
si intende non imprigionare o bruciare chi la pensa diversamente come accadeva
una volta, ma ipotizzare che chi la pensa diversamente possa avere un gradiente
di verità superiore al proprio. Solo a queste condizioni può incominciare il
dialogo e dar vita a quel tipo di convivenza che si chiama democrazia.
Su questo tema Zagrebelsky insiste con parole chiare. E da eminente giurista non
può evitare di constatare il conflitto tra l´universalità della legge e la
storicità delle situazioni concrete, che non è qualcosa di sporadico o di
accidentale, ma una costante che ricorre con una frequenza insospettata. Quando
ad esempio nella cultura d´Occidente si proclamano i diritti dell´uomo e insieme
il rispetto delle differenze culturali, siamo sicuri che il contenuto concreto
di questi diritti non siano le consuetudini di noi occidentali, che potrebbero
benissimo sgretolarsi a contatto con le differenze culturali di cui pure
proclamiamo il rispetto? E allora solo una discussione tra le culture, al
termine di una storia ancora a venire, potrà dire quali universali pretesi
diventeranno universali riconosciuti.
Un altro esempio di conflitto dei doveri può essere desunto dall´etica kantiana
a proposito della sollecitudine per la persona e del suo equivalente morale che
è il rispetto. Che ne è di quest´etica in ordine alla donna nei primi mesi di
gravidanza e in ordine al morente nelle sofferenze della sua agonia? Che ne è
della rispettiva angoscia e delle regole morali e giuridiche indifferenti a
queste situazioni di angoscia? Che etica deve qui entrare in azione: il rispetto
della persona o il rispetto della regola? Kant ci ricorda che la morale è fatta
per l´uomo e non l´uomo per la morale. Un´espressione questa che ricalca quella
di Gesù là dove dice che il sabato è fatto per l´uomo, non l´uomo per il sabato.
Nei casi citati solo l´etica del dubbio invocata da Zagrebelsky si solleva
all´altezza della questione, che non consiste nel decidere se abortire o meno,
se praticare o meno l´eutanasia, ma nel decidere tra doveri che meritano
entrambi rispetto e attenzione, perché ciascuno di essi è confortato da potenti
e fondate motivazioni etiche. E siccome non vi è regola per decidere tra le
regole, per questo e non per altro occorre un dialogo senza pregiudiziali in
cui, tra regole che appaiono entrambe giuste, si cerca di reperire quella equa.
Questo oltrepassamento della legge in nome dell´equità è stato teorizzato e
discusso da Aristotele in quei numerosi passi dell´Etica a Nicomaco dove si
introduce il concetto di saggezza pratica o phrónesis, che è quella forma di
saggezza legata all´applicazione della norma in situazione, là dove la
situazione si rivela decisamente più complessa della semplicità con cui la norma
universale è formulata. Scrive infatti Aristotele: «Tra i discorsi che
riguardano le azioni, quelli universali sono i più vuoti, e quelli che
riguardano i casi particolari sono i più veritieri, e, dato che le azioni
riguardano i casi particolari, è necessario adeguarsi ad essi». Qui l´etica del
dubbio, che commisura la norma universale con le situazioni particolari, fa un
servizio alla verità maggiore di chi, in nome della verità o dei principi,
applica la norma prescindendo dalle situazioni concrete che spesso mal si
attagliano all´universalità della legge, la cui applicazione sarebbe senz´altro
corretta e non soggetta a obiezioni, ma fondamentalmente ingiusta.
«E´ necessario, scrive Zagrebelsky, che tutte le convinzioni e le fedi più
radicate, cessino di essere verità e si trasformino in opinioni quando diventano
pubbliche nel rapporto degli uni con gli altri». Senza questa capacità di
trasformazione non si dà il dialogo, così spesso retoricamente invocato, e tanto
meno democrazia. Del resto lo stesso Jacques Maritain, il filosofo cattolico a
cui spesso faceva riferimento Paolo VI, distingueva la fede, campo della verità
dogmatica, dalla politica che è il campo del possibile. E questo anche in
omaggio alla risposta che Gesù rese a Pilato. «Il mio regno non è di questo
mondo». Ma forse proprio qui si incaglia il cristianesimo che guarda alla «città
celeste», e perciò assegna allo Stato che governa la «città terrena», non la
realizzazione del bene, ma la semplice limitazione delle condizioni che possono
ostacolare il destino ultraterreno, dove l´individuo, e non la comunità, trova
la sua autorealizzazione. Ma la dove la realizzazione individuale viene distinta
dalla realizzazione sociale, etica e politica si separano, al punto che Rousseau
può dire: «Il cristiano non può essere un buon cittadino. Se lo è, lo è di
fatto, ma non di principio, perché la patria del cristiano non è di questo
mondo».
Quando i cristiani e in generale tutti i detentori di una presunta verità
assoluta riusciranno convincersi che la politica e l´etica civile che ne deriva
non sono la semplice applicazione delle proprie radicate fedi o convinzioni, ma
mediazione tra fedi, convinzioni, opinioni, norme e concrete situazioni? Per
accedere a questa, che è poi la condizione della vita democratica, non c´è altra
via se non quella che Zagrebelsky chiama «etica del dubbio», l´unica che fa
onore alla verità che nessuno possiede, perché, di epoca in epoca, la verità si
trova sempre per via.
Umberto Galimberti Repubblica 3.3.08