Le parole della
democrazia
Ogni forma di governo usa gli "argomenti" adeguati ai propri fini. Il
dispotismo, ad esempio, usa la
paura e il bastone per far valere il comando dell'autocrate. La democrazia
è il regime della
circolazione delle opinioni e delle convinzioni, nel rispetto reciproco.
Lo strumento di questa
circolazione sono le parole. Si comprende come, in nessun altro
sistema di reggimento delle società,
le parole siano tanto importanti quanto lo sono in democrazia. Si comprende
quindi che la parola,
per ogni spirito democratico, richieda una cura particolare: cura particolare in
un duplice senso,
quantitativo e qualitativo. Il numero di parole conosciute e usate è
direttamente proporzionale al
grado di sviluppo della democrazia e dell'uguaglianza delle possibilità.
Poche parole e poche idee,
poche possibilità e poca democrazia; più sono le parole che si conoscono, più
ricca è la discussione
politica e, con essa, la vita democratica. Quando il nostro linguaggio
si fosse rattrappito al punto di
poter pronunciare solo sì e no, saremo pronti per i plebisciti; e quando
conoscessimo solo più i sì,
saremmo nella condizione del gregge che può solo obbedire al padrone. Il numero
delle parole
conosciute, inoltre, assegna i posti entro le procedure della democrazia.
Ricordiamo ancora la
scuola di Barbiana e la sua cura della parola, l'esigenza di impadronirsi della
lingua? Comanda chi
conosce più parole. «È solo la lingua che fa eguali. Eguale è chi sa esprimersi
e intende
l'espressione altrui. Che sia ricco o povero importa di meno». Ecco anche perché
una scuola
ugualitaria è condizione necessaria, necessarissima, della democrazia.
Con il numero, la qualità delle parole. Le parole non devono
essere ingannatrici, affinché il
confronto delle posizioni sia onesto. Parole precise, specifiche, dirette; basso
tenore emotivo, poche
metafore; lasciar parlar le cose attraverso le parole, non far crescere parole
con e su altre parole.
Uno dei pericoli maggiori delle parole per la democrazia è il linguaggio
ipnotico che seduce le folle,
ne scatena la violenza e le muove verso obbiettivi che apparirebbero facilmente
irrazionali, se solo i
demagoghi non li avvolgessero in parole grondanti di retorica.
Le parole, poi, devono rispettare il concetto, non lo devono corrompere.
Altrimenti, il dialogo
diventa un inganno, un modo di trascinare gli altri dalla tua parte con mezzi
fraudolenti. Impariamo
da Socrate: «Sappi che il parlare impreciso non è soltanto sconveniente in se
stesso, ma nuoce
anche allo spirito»; «il concetto vuole appropriarsi del suo nome per tutti i
tempi», il che significa
innanzitutto saper riconoscere e poi saper combattere ogni fenomeno di
neolingua, nel senso
spiegato da George Orwell, la lingua che, attraverso propaganda e bombardamento
dei cervelli, fa sì
che la guerra diventi pace, la libertà schiavitù, l'ignoranza forza. Il
tradimento della parola deve
essere stata una pratica di sempre, se già il profeta Isaia, nelle sue
"maledizioni" (Is 5, 20),
ammoniva: «Guai a coloro che chiamano bene il male e male il bene, che cambiano
le tenebre in
luce e la luce in tenebre, che cambiano l'amaro in dolce e il dolce in amaro».
I luoghi del potere sono per l'appunto quelli in cui questo tradimento si
consuma più che altrove, a
incominciare proprio dalla parola "politica". Politica viene da polis e
politéia, due concetti che
indicano il vivere insieme, il convivio. È l'arte, la scienza o l'attività
dedicate alla convivenza. Ma
oggi parliamo normalmente di politica della guerra, di segregazione razziale, di
politica
espansionista degli stati, di politica coloniale, ecc. «Questa è un'epoca
politica», ancora parole di
Orwell. «La guerra, il fascismo, i campi di concentramento, i manganelli, le
bombe atomiche sono
quello a cui pensare». La celebre definizione di Carl Schmitt, ripetuta alla
nausea, della politica
come rapporto amico-nemico, un rapporto di sopraffazione, di inconciliabilità
assoluta tra parti
avverse è forse l'esempio più rappresentativo di questo abuso delle parole. Qui
avremmo, se mai, la
definizione essenziale non del "politico" ma, propriamente, del "bellico", cioè
del suo contrario.
Ancora: la libertà, nei tempi nostri avente il significato di protezione dei
diritti degli inermi contro
gli arbitri dei potenti, è diventata lo scudo sacro dietro il quale proprio
costoro nascondono la loro
pre-potenza e i loro privilegi. La giustizia, da invocazione di chi si ribella
alle ingiustizie del
mondo, si è trasformata in parola d'ordine di cui qualunque uomo di potere si
appropria per
giustificare qualunque propria azione. Quanto alla parola democrazia, anch'essa
è sottoposta a
"rovesciamenti" di senso, quando se ne parla non come governo del popolo, ma per
o attraverso il
popolo: due significati dell'autocrazia.
Da questi esempi si mostra la regola generale cui questa perversione delle
parole della politica: il
passaggio da un campo all'altro, il passaggio è dal mondo di coloro che al
potere sono sottoposti a
quello di coloro che del potere dispongono e viceversa. Un uso ambiguo, dunque,
di fronte al quale
a chi pronuncia queste parole dovrebbe sempre porsi la domanda: da che parte
stai ? Degli inermi o
dei potenti?
* * *
Affinché sia preservata l'integrità del ragionare e la possibilità d'intendersi
onestamente, le parole
devono inoltre, oltre che rispettare il concetto, rispettare la verità dei
fatti. Sono dittature
ideologiche i regimi che disprezzano i fatti, li travisano o addirittura li
creano o li ricreano ad hoc.
Sono l'estrema violenza nei confronti degli esclusi dal potere che, almeno,
potrebbero invocare i
fatti, se anche questi non venissero loro sottratti. Non c'è manifestazione
d'arbitrio maggiore che la
storia scritta e riscritta dal potere. La storia la scrivono i vincitori – è
vero - ma la democrazia
vorrebbe che non ci siano vincitori e vinti e che quindi, la storia sia scritta
fuori delle stanze del
potere. Sono regimi corruttori delle coscienze fino al midollo, quelli che
trattano i fatti come
opinioni e instaurano un relativismo nichilistico applicato non alle opinioni ma
ai fatti, quelli in cui
la verità è messa sullo stesso piano della menzogna, il giusto su quello
dell'ingiusto, il bene su
quello del male; quelli in cui la realtà non è più l'insieme di fatti duri e
inevitabili, ma una massa di
eventi e parole in costante mutamento, nella quale ciò che oggi vero, domani è
già falso, secondo
l'interesse al momento prevalente. Onde è che la menzogna intenzionale,
cioè la frode – strumento
che vediamo ordinariamente presente nella vita pubblica – dovrebbe trattarsi
come crimine
maggiore contro la democrazia, maggiore anche dell'altro mezzo del dispotismo,
la violenza, che
almeno è manifesta. I mentitori dovrebbero considerarsi non già come abili, e
quindi perfino
ammirevoli e forse anche simpaticamente spregiudicati uomini politici ma come
corruttori della
politica.
* * *
La cura delle parole in tutti i suoi aspetti è ciò che Socrate definisce
filologia. Vi sono persone, i
misologi, che «passano il tempo nel disputare il pro e il contro, e finiscono
per credersi divenuti i
più sapienti di tutti per aver compreso essi soli che, sia nelle cose sia nei
ragionamenti, non c'è nulla
di sano o di saldo, ma tutto […] va su e giù, senza rimanere fermo in nessun
punto neppure un
istante». Questo sospetto che nel ragionare non vi sia nulla di integro c'è un
grande pericolo, che ci
espone a ogni genere d'inganno. Le nostre parole e le cose non devono "andare su
e giù". Occorre
un terreno comune oggettivo su cui le nostre idee, per quanto diverse siano,
possano poggiare per
potersi confrontare. Ogni affermazione di dati di fatto deve essere verificabile
e ogni parola deve
essere intesa nello stesso significato da chi la pronuncia e da chi l'ascolta.
Chi mente sui fatti
dovrebbe essere escluso dalla discussione. Solo così può non prendersi in odio
il ragionare e può
esercitarsi la virtù di chi ama la discussione.
Gustavo Zagrebelsky la Repubblica 23 aprile 2009