Le lontane impronte dei rom
Si sa che quel che fa male a un adulto, a un
bambino fa male doppio. Perché non può difendersi alla stessa maniera, e anche
perché non sempre ha gli strumenti per comprendere. Per questo, anche nel caso
di reati, la legge prescrive pene e comportamenti diversi se si tratta di
minori. Invece il Ministro Maroni dice che le impronte vanno prese anche ai
barom per il loro bene, per garantire a chi ha il diritto di rimanere in Italia
di vivere in condizioni decenti. Viene da chiedersi cosa c'entra la decenza con
il fatto che bambini, ma anche adulti, che vivono nel nostro paese da secoli e,
vale la pena sottolineare, al 70% sono italiani, vengano considerati diversi da
altri bambini e adulti e debbano sottomettersi a misure che riguardano solo
loro. Perché non c'è dubbio che i provvedimenti in questione considerano solo un
determinato gruppo di persone schedato (o censito) in quanto gruppo,
generalizzando comportamenti che dovrebbero appartenere alla sfera individuale.
Purtroppo la storia dei sinti e dei rom è da sempre una storia di
discriminazione perseguita attraverso il controllo. Da secoli molte leggi che li
riguardano prescrivono, prima di tutto, il loro censimento: come per afferrarli
e contarli, mentre loro viaggiano sempre in fuga. Basti pensare alle politiche
assimilazioniste di Maria Teresa d'Austria, che ordinava di identificarli e
classificarli per cancellarne cultura e identità, e al fatto che i rom, due
secoli dopo, entrano ed escono dal nazismo senza quasi senza lasciare rimorso e
soprattutto attenzione. Persino nell'immediato dopoguerra quando si calcolano i
risarcimenti dovuti alle vittime agli «zingari» si riconosce un po' meno che
agli altri. Nel processo ad Eichmann il capo di imputazione che li riguardava
venne stralciato. Tutto ciò anche perché ben prima dell'avvento del nazismo, non
solo in Germania ma in tutta Europa, esisteva una legislazione orientata prima
al controllo e all'identificazione, poi alla loro omologazione e assimilazione.
Nella Germania guglielmina e nella Repubblica di Weimar la «questione zingara»
era affidata quasi esclusivamente alle autorità di polizia locali col compito,
sostanzialmente, di far rispettare regole e doveri: gli «zingari» dovevano
lavorare e smettere la vita nomade. Per questo le leggi imponevano il loro
censimento. Nel 1934 il Ministero degli interni tedesco cominciò a finanziare i
Centri di igiene razziale nei quali la «questione zingara» venne affrontata con
molta attenzione. Attingendo, soprattutto, a dati, nomi e luoghi di residenza
raccolti dal Servizio informazioni di Monaco, ufficio fondato nel 1899 che in 30
anni aveva schedato migliaia di «zingari». Poi, nel giro di pochi anni,
l'Istituto fu ribattezzato Ufficio centrale per la lotta alla piaga zingara. Il
resto è storia più nota anche se trascurata o rimossa. Vale la pena rileggerla,
anche se, come dice un un vecchio rom, «oggi è diverso, però non ci stupiamo, e
ogni volta fa sempre più paura».
Giovanna Boursier Il manifesto 26/6/08