Le due follie
Una dichiarazione del Comitato Olimpico Internazionale, diffusa all’indomani
della guerra fra
Georgia e Russia, riassume molto bene l’epoca in cui viviamo e lo stato mentale
che la caratterizza:
stato fatto di cecità, ignoranza, stupidità militante, irresponsabilità. «Non è
quello che il mondo
vorrebbe in questo momento vedere», sentenzia a Pechino il Comitato, e forse non
sa quanto è
fedele al vocabolario dominante nei governi e nei giornali d’Occidente.
Anch’essi non vogliono
guardare quel che accade e di conseguenza non lo vedono: non da oggi, ma da
decenni. Ci si
dichiara delusi, traditi, come se le Olimpiadi non fossero state questo sempre,
dalle tirannidi greche
antiche fino ai Giochi di Hitler nel ’36: un intreccio di bellezza estatica e di
brutture, un fascinoso
mito d’armonia poggiato sul duro pavimento di realtà fratricide. Le Olimpiadi
sono sempre state un
mondo parallelo, e lungo i millenni non hanno mai sostituito il mondo effettivo
anche se ne hanno
raffigurato le illusioni: l’umanità naviga triste verso lidi di felicità
fittizia nelle odi di Pindaro come
nella modernità.
Le Olimpiadi del 2008 non sono state infangate. La stupidità umana è un fango
che precede il mito
anche quando se ne nutre, e la caucasica guerra estiva lo conferma: non si può
neppure escludere
che i bellissimi simboli d’unità a Pechino siano un’immagine insopportabile per
il cuore geloso di
Mosca, che vede l’impero cinese affermarsi e il proprio degenerare. Al momento
tuttavia Putin
sembra vincente.
La Georgia non pare aver ripreso i territori che ritiene suoi e si ritira,
Washington che era il
principale alleato di Tbilisi cerca di negoziare soluzioni Onu accettabili per
Putin. Vacilla infine la
strategia occidentale alle periferie russe: l’incorporazione nella Nato di
Georgia e Ucraina
s’allontana.
Sono quasi vent’anni che non vediamo, non ci prepariamo, non pensiamo veramente
la fine
dell’impero sovietico. Quest’intermezzo era colmo di premonizioni ma l’abbiamo
traversato con
occhi bendati e idee defunte: con reminiscenze di Hitler e dei cedimenti
democratici del ’38, con lo
spirito resuscitato del ’14-’18 e dell’autodeterminazione dei popoli. In questi
anni la
mondializzazione ha messo le radici, accelerata da Cina e India, ma nessuno
strumento è stato
apprestato per governarla. L’unica bussola resta il predominio unilaterale
americano, la sua
presenza sempre più estesa in zone strategiche ricche di petrolio e gasdotti.
L’unica lente attraverso
cui si guarda il reale è quella dell’equilibrio delle potenze, della balance of
power che gioca un
nazionalismo contro l’altro. Clinton non è Bush junior ma il suo atteggiamento,
come quello di
Bush padre, non fu diverso. La fame di controllo sul Caucaso ha accomunato tre
presidenze Usa,
spegnendo i primi passi russi verso il post-nazionalismo e accrescendo nei suoi
dirigenti il senso di
umiliazione, offesa, risentimento.
In questa vecchia politica si mescolavano due ideologie. La prima immaginava un
mercato
mondializzato che poteva fare a meno della politica proprio mentre si
moltiplicavano nel mondo
conflitti più che mai politici su risorse e petrolio. La guerra in Iraq è stata
l’acme del Grande Gioco
attorno alle risorse, cui si sono aggiunte le interferenze nel Caucaso, la Nato
usata come gingillo di
potenza, le basi militari insediate in Asia centrale durante le guerre
anti-terrore. La seconda
ideologia è il nazionalismo etnico, che è riemerso nel pensiero occidentale
cancellando la lezione di
due guerre mondiali catastrofiche. L’aggressione serba contro i separatismi
jugoslavi è sfociata in
una guerra che ha visto l’Occidente intervenire a giusto titolo per evitare
carneficine ma senza idea
alcuna sulle società multietniche da ricostruire. I cedimenti mentali si sono
susseguiti: si cominciò
con l’appoggio a nazioni omogenee (l’accordo di Dayton suddivise la Bosnia in
tre clan etnici) e si
finì con il beneplacito alla secessione del Kosovo nel 2008. La sconfitta Usa ed
europea ha inizio
allora: se il mondo ragiona come nel ’14, non stupisce che anche Putin manipoli
le etnie a proprio
vantaggio.
Ora ci si indigna tutti sorpresi, ma quel che succede è una logica conseguenza
di queste resuscitate
idee defunte. E non voler vedere serve a poco, perché il non-visto esiste pur
sempre e non eclissa
colpe, omissioni, follie che sono di tutti. Non eclissa innanzitutto le colpe
del Presidente georgiano,
al potere dopo la Rivoluzione delle Rose del 2003. Il regista Otar Iosseliani,
intervistato da La
Repubblica, lo chiama «un folle, nel senso letterale del termine»: «Siamo nelle
mani di un uomo che non ha la minima idea di come si governa ed è in preda al
suo delirio di onnipotenza. È evidente che si è fatto prendere dal panico,
abboccando alle provocazioni della Russia». Non meno folle è
Putin, «anche se molto più intelligente»: non vuol rassegnarsi alla perdita
dell’Urss, non ha mai
accettato la sovranità della Georgia. Sono anni che eccita Abkhazia e Ossezia
del Sud, ai confini
georgiani, russificandole. Quasi tutti gli osseti del Sud hanno ottenuto in
questi anni passaporti da
Mosca e da Mosca sono tutelati.
Una debole tregua era stata instaurata, ai tempi di Shevardnadze presidente
georgiano ed ex
ministro degli Esteri di Gorbaciov. Truppe di interposizione erano state
schierate nella regione sulla
base d’un accordo russo-georgiano stipulato il 24 giugno ‘92 - composte da
russi, georgiani,
osseti. È questo ordine che il nuovo presidente georgiano ha violato, aggredendo
l’Ossezia del Sud e ignorando due referendum favorevoli all’indipendenza. È
probabile non abbia agito da solo, e che nella sua follia ci sia del metodo. È
il metodo di chi si sente spalleggiato, se non istigato. Alle sue
spalle c’è un’America che mira a un’egemonia senza saperla esercitare; che da
anni addestra
militari georgiani, finanzia il nazionalismo di Tbilisi, promette l’adesione
alla Nato più per accendere incendi che per spegnerli.
È la crescente presenza Usa nel Caucaso e in Asia centrale che ha spinto
anche il Cremlino alla follia. Senza l’appoggio Usa, Saakashvili sarebbe stato
meno
avventurista. Il suo metodo è l’attacco bellicoso, visto come sostituto della
politica. Nato e Unione
Europea sono per lui non strumenti di pacificazione, ma attrezzi di guerra.
Infine c’è l’irresponsabilità, vasta, dell’Europa. Sono anni che alle sue
periferie si guerreggia, e
ancora non ha preso forma un pensiero forte, convincente per Mosca e le nazioni
che per secoli
erano nella sfera d’influenza russa. Fra l’offerta d’adesione e l’indifferenza
c’è il nulla, e il continuo
tergiversare facilita ogni sorta di provocazioni. Non solo: l’adesione è offerta
sbadatamente,
dimenticando le radici ideali dell’Unione. Si appoggia la sovranità georgiana,
ma senza spiegare
che la sovranità in Europa non è più assoluta. Si permette al leader georgiano
di usare la bandiera
europea, e di stravolgerla. Per Saakashvili essa è un arma, più che un ponte. La
cultura dell’Unione
è del tutto assente nel suo ragionare, e di simile ignoranza gli europei non
sono incolpevoli. A
Tbilisi come a tanti dirigenti dell’Est non è stato detto che nazionalismo e
irredentismo non sono
più di casa nella comunità europea, né le Riconquiste che violano tregue. Putin
non è d’accordo ma
lui, almeno, non sventola la bandiera dell’Unione quando parla. Iosseliani ne è
certo: «L’esercito
georgiano è convinto di poter vincere, perché immagina di avere alle spalle la
comunità
internazionale e perché la comunità internazionale lo ha illuso. Così la Georgia
si trasformerà in una
piazza d’armi che si estenderà all’Abkhazia e poi all’Ucraina, e dove si
combatteranno
indirettamente le due superpotenze, Russia e Stati Uniti». La guerra è ancora in
corso, anche se la
sua macchina magari si fermerà un po’. Al posto di guida, intanto, c’è la forza
di Putin: forza
militare, forza di ricatto energetico, forza di chi scruta il nostro vuoto e non
è portato a far altro che
profittarne.
Barbara Spinelli La Stampa 11
agosto 2008