Le bombe proibite
che l’Italia continuerà a vendere
Il 10 agosto la convenzione Onu lega le mani ad ogni paese del mondo. Proibito
fabbricare,
esportare e conservare in depositi più o meno segreti le bombe a grappolo,
cluster munition.
Polverizzano come le altre ma non è tutto: disperdono 150, 170 frammenti che non
sono schegge
qualsiasi, bensì trappole micidiali, colorate per incuriosire chi fruga fra le
macerie o le ritrova fra
l’erba dei campi. Appena sfiorate scoppiano “più efficaci delle mine-uomo”.
Cambiano la vita e
ogni anno a migliaia di bambini: chi muore e chi resta per sempre diverso. Gino
Strada e la sua
Emergency sono testimoni del disastro dell’Afghanistan: gambe artificiali
paracadutate in territori
pericolosi galleggiano nell’aria come fantasmi di plastica.
Il documento siglato da 30 paesi
PER RENDERE obbligatoria la convenzione internazionale proposta dal segretario
Onu, Ban Kimoon
era necessaria l’adesione di almeno 30 governi. Gli ultimi a firmare “per senso
di civiltà”
sono stati Burkina Faso e Moldavia. L’Italia se ne è dimenticata. Come sempre
Russia, Stati Uniti,
Cina, Pakistan, Israele stanno a guardare con la diffidenza di chi non sopporta
il moralismo fanatico
dei pacifisti anche se Obama è impegnato in una moratoria che frena la
deregulation del guerriero
Bush. Proibisce l’esportazione delle armi non convenzionali (oltre alle clutser,
missili al fosforo
bianco, napalm, eccetera) con l’ordine di distruggere prima del 2018 gli 800
milioni di bombe a
grappolo stoccate negli arsenali Usa.
Come mai l’Italia non firma? Due anni fa, due nostri ministri
a
Oslo avevano appoggiato l’iniziativa. “Siamo tra i primi cento paesi a
pretendere una guerra più
umana”, morale che fa sorridere perché di umano nelle guerre non c’è niente,
eppure sembrava un
primo fiato di buona volontà. Ma se ne sono dimenticati. Tante le
spiegazioni. Turbamenti politici
che annegano la memoria o convenienza a non mettere in crisi le industrie delle
armi che
continuano a volare. Nel 2008 (ultimi numeri disponibili) il valore delle
autorizzazioni concesse dal
governo per vendere ad altri paesi carri armati, elicotteri, bombe di ogni tipo,
missili e strumenti
sofisticati d’attacco, era cresciuto del 35 per cento: 5,7 miliardi di euro.
Tendenza confermata nel
2009. Fra un po’ sapremo quanti affari in più. La Turchia che schiaccia i curdi
è il cliente d’oro: un
miliardo e 93 milioni. Poi Francia e tanti paesi fra i quali Libia, il Venezuela
di Chavez, Emirati
Arabi Uniti, Oman, Kuwait, Nigeria. Le imprese autorizzate dal nostro ministero
della Difesa sono
300. Tre le banche privilegiate nell’intermediazione: Banca Nazionale del
Lavoro, Deutsche Bank e
Societè Generale.
In coda Banca Intesa ed Unicredit. Milioni di provvigioni da
un passaggio
all’altro. A parte la lista nera dei paesi ai quali è proibito vendere
direttamente – anche se il gioco
ambiguo delle triangolazioni funziona da quando Israele comprava in Europa ed
esportava nel Sud
Africa dell’embargo disegnato per sgonfiare il razzismo di stato – e a parte un
elenco di governi che
impongono semi libertà sdegnate dalla carte delle Nazioni Unite, ecco il
macchiavello degli aiuti
umanitari. Se l’ Italia o altre nazioni sono presenti per soccorrere la
disperazione delle popolazioni,
le armi scivolano senza suscitare censure.
Se nel Lazio si producessero ancora?
ARMI ITALIANE in Libia dove (Amnesty e Human Rights Watch) chi
pretende libertà
d’espressione, di associazione o di pensiero può essere condannato a morte. Per
non parlare
dell’accoglienza disumana ai profughi in fuga dalle dittature di Sudan ed
Eritrea. Vendiamo alla
Thailandia nella quale le camice rosse dell’ex presidente e l’esercito del
presidente in carica si
affrontano sconvolgendo città e campagne. A quali delle due fazioni vendiamo?
Per non parlare di
Arabia Saudita, Emirati, Oman dove le donne restano ombre clandestine. Human
Rights fa sapere
dei depositi di bombe a grappolo di casa nostra: “L’Italia continua a
nasconderne la quantità”. Fra le
imprese che hanno prodotto le cluster e non chiariscono se continuano e
quante bombe
ammucchiano in magazzino, c’è la Simmel Difesa di Colleferro.
Vende a La Russa munizioni per i veicoli corazzati in
Afghanistan. Anni fa, mentre l’opinione pubblica si agita davanti allo strazio
di donne e bambini bruciati dal fosforo bianco americano a Fallujia o israeliano
a Gaza, le bombe a
grappolo dell’Afghanistan scandalizzano televisioni e giornali e la Simmel
censura il suo catalogo
on line: spariscono le munizioni proibite. Ma un’inchiesta di Rai News 24 e
informazioni delle Ong
che tutelano i diritti umani riempiono il vuoto: la produzione continua. Se
fosse vero, brivido
d’orrore. Perché esistono, sparse nel mondo, 100 milioni di bombe a grappolo
inesplose. Vendere fa
bene agli affari, ma quale futuro stiamo immaginando? Il silenzio continua,
l’Italia non firma.
La responsabilità non può esaurirsi nell’ambiguità dei politici o negli affari
d’oro dei dottor
Stranamore dell’industria pesante: i sindacati dove sono? Nel 1984 in un
dibattito con Luciano
Lama, qualcuno ha suggerito di portare in gita nella Beirut appena macinata dai
cannoni di Sharon,
gli operai dell’Oto Melara. Ieri come oggi Cgil-Cisl-Uil evitavano di
collegare il “lavoro che rende
liberi” alla libertà che quel lavoro brucia nella vita di popoli lontani.
Lama si è arrabbiato:
“Convertiremo i carri armati in locomotive, dateci tempo”. Il tempo passa e alla
Simmel di
Colleferro nessuno protesta. Nei giorni dei posti perduti, un posto sicuro
val bene qualche
distrazione.
Maurizio Chierici il Fatto Quotidiano 6 agosto 2010
Il «talento»
dimenticato dall'Italia
L’Italia non ha ratificato il trattato sulle bombe a grappolo;
le bombe tanto amate dagli eserciti
occidentali quando vanno ad esportare democrazia con i caccia bombardieri.
L’unica voce che si è
espressa, con l’abituale fermezza, contro la codardia di governi subalterni a
chiunque produca soldi,
anche a costo di distribuire morte agli inermi e agli innocenti, è stata quella
del Papa, domenica
scorsa, dopo la recita dell’Angelus. Codardia, dicevamo: infatti, Benedetto XVI
ha invitato i
cosiddetti potenti di questo mondo ad avere il coraggio di schierarsi a favore
del diritto umanitario.
E anche memoria, perché politicamente parlando, la mancata ratifica del
governo italiano è
l’ennesimo brutto segno dell’involuzione culturale e morale che l’ Italia sta
soffrendo nel campo della sua politica internazionale.
È ancora
difficile stabilire se sia stato per ricaduta diretta o solo per
concomitanza ideale che Roma e l’Italia, specie negli anni del pontificato
wojtylano, diventarono
due laboratori del diritto umanitario internazionale.
Come ricordato dalla stampa straniera dopo l’aprile del 2005
(ma anche durante il viaggio di
Benedetto XVI in Turchia) gli italiani furono i più solleciti costruttori di
argini da porre ai neocon
che nell’America di Bush teorizzavano - con politiche ed azioni - il clash
delle civiltà. Dopo Assisi
2002, e dopo oltre cinquecento manifestazioni-evento, molte di spessore
internazionale svoltesi in
gran parte della Penisola, fu l’italianissimo ministro Pisanu che fece firmare a
tutti i suoi omologhi
dell’Unione Europea, durante un semestre di nostra presidenza, quella «carta
europea della
sicurezza sociale» che ha trasformato in «cultura europea» le categorie e il
metodo del dialogo
interreligioso e interculturale. Non per nulla il nostro Paese è stato membro
fondatore della
«commissione europea contro il razzismo e l’intolleranza» e ha finora
partecipato attivamente alle
attività dell’osservatorio europeo sul razzismo e la xenofobia.
Firmataria e sollecita ratificatrice della convenzione Onu
contro la tortura del 2002 (altra perla della
nostra diplomazia che alla sua stesura ha molto contribuito), l’Italia ha subito
trovato nella Roma di
oggi la sede per la sua «città della vita», la rete internazionale di
città-rifugio per i perseguitati del
mondo: se qualcuno dell’attuale amministrazione capitolina lo ricordasse,
rischierebbe solo di far
fare bella figura ad una giunta per tanti versi impresentabile. Anche durante il
G8 di Genova, e
nonostante le contestazioni e le violenze gratuite, l’Italia riuscì a far
rientrare l’Africa sull’agenda
dell’organizzazione internazionale e dei «grandi» del mondo. E se oggi, tra
mille tentennamenti,
l’Unione Europea parla di cura e prevenzione dell’aids e accetta di dialogare
per la soluzione dei
problemi politici e sociali di Darfur, Togo, Ruanda, Congo e Costa d’Avorio ciò
avviene come
continuazione della vocazione umanitaria che, al di là delle gestioni politiche,
le istituzioni italiane
coltivano da decenni.
Anche la battaglia per la messa al bando delle mine antiuomo,
sancita con il conferimento del
premio Nobel alla «campagna mondiale» che l’ha ottenuta, deve parte del suo
successo all’aiuto
determinante del governo e delle Ong italiane. E siamo stati il primo Paese a
ratificare, nel febbraio
2002, la legislazione internazionale contro i bambini soldati contribuendo a
farla progredire
velocemente (era iniziata nel 1998) sia al consiglio permanente sia
all’assemblea generale dell’Onu.
Anche la campagna contro la pena di morte ha tra i suoi più convinti fautori un
gran numero di
istituzioni e di associazioni del nostro Paese: nessuno, all’estero, nega
l’origine tutta italiana della
moratoria votata all’Onu.
In un Paese dove si trovano fondi per una serie
indefinita di sciocchezze,
nessuno però trova i mezzi per conservare all’Italia il diritto umanitario, un
«talento» saldamente
posseduto. Da far fruttificare, anche perché non ha particolari debiti
con i miti della Roma della
tradizione, ma sembra piuttosto un frutto maturo della nostra società civile. Un
tesoro di
competenze costruito grazie ad una rete di organizzazioni volontarie che
presentano cifre da
capogiro: 18.293 riportate negli appositi registri nazionali, altrettante non
registrate. Con un
incremento, negli ultimi dieci anni, del 120%. Una vasta rete di rapporti,
spesso non ufficiali,
rischia purtroppo di entrare in crisi (nonostante rappresenti un asso nella
manica per la nostra
politica estera) per i tagli decisi dall’attuale finanziaria nel campo della
cooperazione. Eppure
quando coopera con i Paesi poveri l’Italia parla la lingua dei diritti
universali con un’ottica
umanistica, capace di far comprendere anche ai potenti più sbadati che i poveri
del mondo non
possono sempre stare a guardare. Non è certo questo il momento di distrarci e di
diventare afoni.
Filippo Di Giacomo l'Unità 4 agosto
2010