Le ansie di una Chiesa profondamente spaesata
Vaticano. Le tre giornate del convegno ecclesiale della diocesi di Roma, nel nome dell’amore cristiano ma nel segno della paura per le tecnologie riproduttive e le sessualità ''anomale''

 

È difficile capire questa fissazione della Chiesa per il sesso. In fondo, la religione cristiana ha tanti e tali temi da proporre alla dottrina dei teologi, alla meditazione dei fedeli e alla guida pastorale del suo pontefice: la questione dell’incarnazione, la grazia e la redenzione, la resurrezione della carne; eppure, gira che ti rigira, sempre da quelle parti si va a parare. Questa volta, a essere sinceri, l’occasione potrebbe giustificare quest’ansia di frugare tra le lenzuola: è in corso il convegno ecclesiale della diocesi di Roma, dedicato alla pastorale giovanile, e si sa che i giovani pensano solo a trombare.
Non si può che accogliere, allora, con grande sollievo le parole di apertura del discorso papale, teso a sottolineare che “la Chiesa non è contro l’amore” e che, anzi, è pronta a riconoscerne l’urgenza tutta terrena e concreta; che il tutto si risolva nella forma del matrimonio e nell’indissolubilità dell’amore umano e di quello divino, d’altra parte, è ben comprensibile, dal momento che queste sono le categorie nelle quali il cattolicesimo pensa l’amore sessuale, ed è anche normale, anzi, persino giusto che cerchi di incanalarlo in quella direzione. Del resto, non ci si può mica aspettare che le cattedrali cattoliche diventino templi del libero amore e che Benedetto XVI butti manciate di preservativi dal balcone di piazza San Pietro: la dottrina è quella e, anzi, ribadire lo stretto rapporto tra amore e carità è, oltre che una notevole rielaborazione teorica del notevolissimo bagaglio filosofico di santa madre Chiesa, anche un grande passo avanti rispetto a un certo penchant per la mortificazione della carne che aveva caratterizzato per lo meno le ultime fasi dello scorso pontificato.
Proprio per questo stridono ancora di più i toni da crociata rispetto a tutto ciò che esula dalla dottrina tradizionale, in cui improvvisamente si parla di “eclissi di Dio” rispetto ai Pacs, si parla della violenza inaudita degli attacchi alla famiglia naturale e si grida all’orrore di fronte a qualsiasi ipotesi di fecondazione assistita. In particolare, a suscitare qualche allarme è la prima espressione, coniata da Martin Buber per una sua raccolta di saggi del 1965, in cui si tentava di esplorare una dimensione dialogica nel rapporto tra l’uomo e Dio, in polemica con il nichilismo: questa tesi, che nasce dalla consapevolezza religiosa dell’ebraismo ashkenazita, radicalmente differente da quella cattolica e dalla sua struttura gerarchica, risuona di tutti i cupi rintocchi del Ventesimo secolo. Quegli stessi rintocchi che si sono sentiti nel richiamo del papa ad Auschwitz, alle sue parole sul silenzio di Dio che, finalmente, mettevano fuori gioco tutta la faccenda della provvidenza e cercava di guardare direttamente nell’abisso.
Ma proprio questa contiguità con le parole di Auschwitz rende tutta la faccenda dei Pacs, più che preoccupante, ridicola. Difendere la sacralità del matrimonio monogamico, eterosessuale e preferibilmente di rito cattolico è un ovvio dovere di ufficio; ma utilizzare per le unioni civili un lessico che evoca la tragedia dello sterminio è una leggera esagerazione. A meno che il cardinale Lopez Trujillo, che dirige il pontificio per la famiglia non intendesse prestare doveroso omaggio a una vecchia canzone di Gianna Nannini (“questo amore è una camera a gas”), sembra che l’istituzione abbia perso il senso della misura. Detto questo, è altrettanto chiaro che la questione in gioco è ampia, e riguarda in pieno quel sacrosanto valore laico che è la libertà di fare quel che si vuole del proprio corpo: è nel corpo e sul corpo, più che sull’evanescenza dell’anima, che si è sempre esercitato il magistero della Chiesa, e che si giocano le nuove libertà.
Lo aveva capito benissimo san Paolo, quando legava il dovere del matrimonio non alla passione ma alla necessità di santificare la passione della carne, e sembra averlo capito anche l’attuale papa, quando lavora su due binari paralleli: il recupero dell’amore terreno come valore e l’allarme per tutto ciò che suggerisce altre vie e altre soluzioni. È così, allora, che il nodo tra sessualità, riproduzione e vincolo matrimoniale diventa essenziale per il mantenimento di quella presenza capillare e imprescindibile della Chiesa nella vita delle persone, che passa soprattutto per il controllo dei desideri e dei progetti; proprio per questo, la linea ecclesiastica individua tre nemici fondamentali. Il primo è, ovviamente, qualsiasi riformulazione del modello matrimoniale monogamico ed eterosessuale, in nome della sua pretesa “naturalità” (che è poi un modo per accettare il compromesso tattico con il matrimonio civile o con quelli religiosi di altre fedi); il secondo è la sessualità svincolata dalla riproduzione, e quindi la contraccezione, l’aborto e l’omosessualità. Il terzo, che è il più nuovo e in qualche modo il più facile, visto che riguarda comportamenti marginali per consistenza e tipologia, è la sessualità senza riproduzione, vale a dire qualsiasi forma di fecondazione assistita.
Al di là delle chiacchiere sulla naturalità, insomma, quello che conta è che queste tre dimensioni devono rimanere connesse nelle loro modalità tradizionali, se la Chiesa vuole continuare a poter dire qualcosa ai propri fedeli e all’intera società, facendosi portatrice di quei famosi “valori” che dovrebbero essere condivisi anche da chi ne è al di fuori o che, in mancanza di condivisione, possono benissimo essere imposti. Uscire da questa logica di potere intorno alla sessualità significa, dunque, liberare anche la stessa Chiesa cattolica dal vicolo cieco in cui si è cacciata, permettendole finalmente di occuparsi di questioni un po’ più serie: diamo a Ratzinger la possibilità di fare il filosofo, che ci garba di più.

  

Nane Cantatore      AprileOnLine  n.177     del 07/06/2006