Le anime belle di Rosarno
I lavoratori stranieri che raccoglievano agrumi a Rosarno abitavano baracche
simili a quelle della sterminata periferia di Bombay. Cartoni, copertoni,
lamiere ondulate. Bene che vada una branda sfondata. Zero igiene. Buio.
Bestie. I lavoratori stranieri che raccoglievano agrumi a Rosarno
guadagnavano in media 2 euro l’ora e lavoravano un numero di ore che nessuna
legge di nessun paese civile consente. I lavoratori stranieri che
raccoglievano agrumi a Rosarno non avevano affetti né conforto. Lavoravano e
basta. Tutti maschi, giovani, di pelle nera. I cittadini di Rosarno, che
non raccolgono agrumi a Rosarno, erano disturbati dalla vista di quell’esercito
di sfruttati silenziosi, rassegnati, forti e soli. C’è da comprenderli: non era
un bello spettacolo. Era uno di quegli spettacoli che mettono disagio e
vergogna. Ma alcuni cittadini di Rosarno, di quelli che non raccolgono
agrumi, hanno manifestato l’intenzione di scacciare quegli stranieri che
raccoglievano agrumi a Rosarno, quasi fosse colpa loro, quasi fossero loro, i
reponsabili, gli autori, i registi di quel brutto spettacolo. Erano soltanto gli
attori, e recitavano il ruolo per forza, non certo per sfizio. A nessuno piace
far pena, meno ancora fare ribrezzo. Alcuni a Rosarno si sono sentiti
minacciati da tutto quel dolore, da tutta quella fatica, da tutta quella
disperazione, compresse lì, alla periferia della loro ridente cittadina.
E che cosa hanno fatto? Li hanno aiutati? No: hanno aperto la caccia. La caccia
è pur sempre uno sport, e come gli sport serve a scaricare i nervi. Così, in
piazza coi forconi, sono scesi anche diversi nullafacenti annoiati. Quelli che
non raccolgono niente, neanche la spazzatura. «Fuori i negri da casa nostra»,
urlavano. E menavano duro. Ma naturalmente nessuno di loro era razzista. Il
razzismo è un’invenzione dei comunisti o di chi ne fa le veci. In Italia, siamo
tutti anime belle.
Lidia Ravera
l’Unità
14.1.10
“Non avevo mai visto esseri umani trattati così”
Parola del
fotografo olandese che ha documentato la vita dei braccianti stranieri in puglia
Ha scattato fotografie in tutto il mondo, l’olandese Piet den Blanken.
Documentando la vita degli afghani a Kabul dopo i bombardamenti, le carceri in
San Salvador, gli immigrati che passando da Tenerife cercano di arrivare in
Europa e quelli che, già in Europa, da Calais vogliono andare in Gran Bretagna.
Ma la situazione che ha incontrato a settembre nel Tavoliere delle Puglie
(dove ogni anno circa 70 mila braccianti stranieri raccolgono i pomodori) lo ha
lasciato senza fiato. “Dopo aver scattato alcune immagini mi sono messo a
piangere”, ci dice. “Nella mia vita ho ascoltato molte storie di
immigrazione e conosco bene le frontiere europee. Ho visto in faccia la
disperazione delle persone e situazioni molto drammatiche, anche nel nostro
continente. Ma non avevo mai visto, in Europa, condizioni di lavoro come
quelle degli stagionali stranieri nel foggiano”. Che a den Blanken hanno
fatto venire in mente le condizioni di vita dei braccianti nella Repubblica
Domenicana, o quelle dei raccoglitori del caffè in Messico. Oppure gli
allevatori delle capre in Ecuador. Che sono poverissimi e vivono nell’indigenza
assoluta. “Sono venuto in Puglia per raccontare la vita di queste persone
dimenticate – dice – che nessuno vuole vedere e di cui nessuno si vuole
occupare. E non solo da voi, in Italia, ma in tutta Europa. Gli immigrati
sono il sintomo di un sistema economico che ha bisogno di schiavi per continuare
ad esistere. Sono una conseguenza dell’ingiustizia prodotta dall’economia
neoliberista. Di problemi molto grandi, insomma, che nessuno vuole
affrontare”.
Di fronte al suo obiettivo gli stranieri avevano due atteggiamenti: “Alcuni si
vergognavano e cercavano di non mostrarsi malati, sporchi. Altri al contrario
volevano far vedere la loro vita e far capire a tutti cosa significa essere
irregolari, schiavizzati”. Girando per quell’inferno fatto di baraccopoli,
ghetti fatiscenti, case ricoperte di nylon per isolarle dalla pioggia, Piet ha
provato emozioni molto forti. “Ricordo in particolare un ragazzo che mi ha
invitato a entrare nella sua ‘casa’. Era un tugurio di cartone senza servizi
igienici né acqua corrente. Mi ha offerto un tè, preparato su un fornellino con
l’acqua che teneva in una tanica. Nonostante tutto, le persone non
vogliono perdere la propria dignità: questo ragazzo mi ha trattato come si fa
con gli ospiti. Ma l’emozione è nata perché, guardando lui, ho pensato a
mio figlio. Che va all’università e ha una vita completamente diversa solo
perché è nato in Olanda. Un pensiero così semplice ma così efficace: quel
ragazzo in quella baracca poteva essere mio figlio”.
Elisa Battistini
il Fatto
14.1.10