Lavorano come bestie,
vivono come bestie
Serve una rivolta come quella di Rosarno per accendere i riflettori su un
fenomeno legato a doppio filo, da sempre, alla condizione degli immigrati
stagionali. Soprattutto nel settore agricolo, soprattutto al sud. Secondo il
rapporto “Una stagione all’inferno” realizzato da Medici Senza Frontiere il 72%
degli immigrati impiegati in agricoltura è privo del permesso di soggiorno. La
gran parte della “manovalanza”, quindi, è composta da lavoratori ricattabili per
la loro posizione irregolare, quindi più facilmente sottoposti a condizioni di
lavoro e vita disumane. Alessandra Tramontano, responsabile dei progetti di Msf
per l’Italia, afferma che in Puglia, Campania, Sicilia e Calabria ha visto
situazioni paragonabili solo ai campi profughi nelle zone di guerra africane.
E non da ieri, ma dal 1999. Quando l’onlus ha avviato i programmi d’azione
sanitaria per gli immigrati nelle regioni meridionali del nostro paese.
Distribuendo kit di primo soccorso e contribuendo all’assistenza sanitaria di
base. Di recente, Msf era passata proprio per Rosarno. Dove aveva distribuito
anche coperte e saponi ai circa 2 mila stagionali nella Piana di Gioia Tauro.
Gli stagionali, spiega la responsabile, sono come una popolazione “nomade” che
si sposta dalla Sicilia dove raccoglie patate, alla Calabria per le arance alla
Puglia per i pomodori alla Campania per le fragole. Si seguono le necessità
delle coltivazioni. E nel frattempo si vive come animali.
Il
65% degli immigrati stagionali vive in strutture abbandonate, il 53% dorme per
terra e solo il 20% in spazi regolarmente affittati. Con compensi che, come
abbiamo “scoperto” nell’ultima settimana, arrivano a 25 euro al giorno quando va
bene. Il 64% degli immigrati non ha accesso all’acqua potabile, il 62% non
dispone di servizi igienici. Le condizioni di vita sono “al di sotto degli
standard minimi di sopravvivenza– dice la Tramontano – quindi proliferano le
malattie”. Sfatando un luogo comune decisamente errato, che immagina gli
immigrati (soprattutto africani) come portatori di malattie, i rilevamenti di
Msf raccontano l’opposto. Gli immigrati si ammalano qui. Il 76% di loro ha meno
di 30 anni e arriva in Italia in salute. Nella più totale mancanza di igiene
contrae infezioni all’apparato respiratorio (13%), che se cronicizzate portano a
gravi complicazioni polmonari, malattie osteomuscolari (22%), pesanti gastriti
(12%). Fino ad arrivare a casi si scabbia e tubercolosi.
Il 75% degli stranieri non accede ai servizi sanitari di base, neppure a
quelli pensati (ai tempi della Turco-Napolitano) per gli irregolari, ovvero gli
ambulatori Stp (per Stranieri temporaneamente presenti). Il 71% risulta
privo di tessera sanitaria. Ma ci sono altre ragioni che spingono uno stagionale
a non cercare assistenza: la paura di essere denunciati, l’assenza di ambulatori
che applichino il codice Stp in molte regioni (ma la Puglia, lo scorso
anno, ha preso provvedimenti in materia) e la necessità di non perdere la paga
giornaliera. Per quanto misera. “In Italia – chiosa il responsabile di Msf,
Loris De Filippi – ci sono tante Rosarno. La crisi esiste da ormai dieci anni.
Msf lavora nei contesti di guerra e molte zone del sud Italia, per gli
stranieri, sono contesti di guerra. O di schiavismo. Perché quello che vediamo
non è tanto dissimile alla realtà raccontata nel primo rapporto sui lavoratori
agricoli al sud, del 1884. Sono cose che denunciamo da tempo. Fa riflettere che
serva una Rosarno per parlare delle latrine a cielo aperto, delle tende igloo in
cui si ammassano quattro o cinque persone, della barbarie a cui siamo arrivati”.
Il rapporto di Msf, infatti, è precedente alla tragedia calabrese. E basta
aprirne una pagina a caso, per esempio quella relativa alla Campania, per
leggere: “La Piana del Sele rivela un quadro scioccante, che mostra con
crudezza il dramma di individui che, pur contribuendo all’economia locale,
vivono in condizioni disumane”. Per non vederle, dopo la raccolta,
spesso si sgombera. Accade a Rosarno. Ma è successo anche nel giugno del 2006 a
Cassibile, nel siracusano. Dove dopo la raccolta delle patate un misterioso
incendio rase al suolo l’accampamento degli stagionali. Che scappano. Impauriti
dalla loro condizione di clandestinità. Con il risultato che, Rosarno a
parte (la raccolta non è ancora finita), ci si assicura il “Pil” della stagione
poi si fanno sparire le tracce di quella schiavitù contemporanea necessaria alla
sua creazione. Un’ipocrisia che si commenta da sola.
Elisa Battistini il Fatto quotidiano 13.1.10
Quando l’Africa era
davvero nera non moriva di fame
Il colonialismo economico ha affamato il continente
Sui fattacci di Rosarno anche la stampa più bieca e razzista è stata costretta a
prendere le parti degli immigrati (“Hanno ragione i negri”, ha titolato il
Giornale, 9/1), sfruttati fino all'osso per i famosi lavori che “gli italiani
non vogliono più fare”, costretti a vivere in case di cartone e, come se non
bastasse, presi anche a pallettoni. Ed è assolutamente ipocrita chiamarli
“neri”, in linguaggio politically correct, come fa la sinistra se
poi li si tratta da “negri” che è il senso ironico del titolo di Feltri.
Quando però si analizzano le cause di queste migrazioni ormai bibliche, che
portano a situazioni tipo Rosarno in Europa e negli Stati Uniti, la stampa
occidentale resta sempre, e non innocentemente, in superficie. Si dice che
costoro sono attratti dalle bellurie del nostro modello di sviluppo. Ora, no c'è
immigrato che non possegga almeno un cellulare e che non sia in grado di
avvertire chi è rimasto a casa di che “lacrime grondi e di che sangue” questo
modello, per tutti e in particolare per chi, come l'immigrato, è l'ultima ruota
del carro.
Si dice allora che costoro sono costretti a venire qui a fare una vita da
schiavi a causa della povertà e della fame che strazia i loro Paesi. E questo è
vero. Ma non si spiega come mai queste migrazioni di massa sono cominciate
solo da qualche decennio e vanno aumentando in modo esponenziale. In
fondo le navi esistevano anche prima e pure i gommoni. Il fatto che gli
immigrati di Rosarno siano prevalentemente provenienti dall'Africa nera ci dà
l'opportunità di spiegarlo.
L'opinione pubblica occidentale, anche a causa della disinformatia
sistematica dei suoi media, è convinta che la fame in Africa sia endemica, che
esista da sempre. Non è così. Ai primi del Novecento l'Africa nera era
alimentarmente autosufficiente. Lo era ancora, in buona sostanza (al 98%), nel
1961. Ma da quando ha cominciato ad essere aggredita dalla pervasività del
modello di sviluppo industriale alla ricerca di sempre nuovi mercati, per quanto
poveri, perché i suoi sono saturi, la situazione è precipitata.
L'autosufficienza è scesa all'89% nel 1971, al 78% nel 1978. Per sapere quello
che è successo dopo non sono necessarie le statistiche, basta guardare le
drammatiche immagini che ci giungono dal Continente Nero o anche osservare a
cosa siano disposti i neri africani, Rosarno docet, pur di venir via.
Cos'è successo? L'integrazione nel mercato mondiale ha distrutto le economie di
sussistenza (autoproduzione e autoconsumo) su cui quelle popolazioni avevano
vissuto, e a volte prosperato, per secoli e millenni, oltre al tessuto sociale
che teneva in equilibrio quel mondo (come è avvenuto in Europa agli albori della
Rivoluzione industriale quando il regime parlamentare di Cromwell, preludio
della democrazia, decretò la fine del regime dei “campi aperti” (open
fields), cosa a cui le case regnanti dei Tudor e degli Stuart si erano
opposte per un secolo e mezzo, buttando così milioni di contadini alla fame
pronti per andare a farsi massacrare nelle filande e nelle fabbri-che così ben
descritte da Marx ed Engels). Oggi, nell'integrazione mondiale del mercato,
nella globalizzazione, i Paesi africani esportano qualcosa ma queste
esportazioni sono ben lontane dal colmare il deficit alimentare che si è
venuto così a creare. E quindi la fame.
Senza per questo volerlo giustificare il colonialismo classico è stato molto
meno devastante dell'attuale colonialismo economico. Fra i due c'è una
differenza sostanziale, di qualità. Il colonialismo classico si limitava a
conquistare territori e a rapinare materie prime di cui spesso gli indigeni non
sapevano che farsi, ma poiché le due comunità rimanevano separate e distinte
poco cambiava per i colonizzati che, a parte il fatto di avere sulla testa
quegli stronzi, continuavano a vivere come avevano sempre vissuto, secondo la
loro storia, tradizioni, costumi, socialità, economia.
Il colonialismo economico, invece, ha bisogno di conquistare mercati e per farlo deve omologare le popolazioni africane (come del resto le altre del cosiddetto Terzo Mondo) alla nostra way of life, ai nostri costumi, possibilmente anche alle nostre istituzioni (la creazione dello Stato, per soprammercato democratico o fintamente democratico, ha avuto un impatto disgregante sulle società tribali), per piegarle ai nostri consumi. In Africa si vedono neri con i RayBan (con quegli occhi!) e il cellulare, che costano niente, ma manca il cibo. Perché il cibo non va dove ce n'è bisogno, va dove c'è il denaro per comprarlo. Va ai maiali dei ricchi americani e, in generale, al bestiame dei Paesi industrializzati, se è vero che il 66% della produzione mondiale di cereali è destinato alla alimentazione degli animali dei Paesi ricchi (dato Fao). E adesso ci si è messa anche la Cina, new entry in questo gioco assassino, che compra, con la complicità dei governanti corrotti, intere regioni dell'Africa nera la cui produzione, alimentare e non, non va ai locali, sfruttati peggio degli immigrati di Rosarno, ma finisce a Pechino e dintorni. Ma l'invasione del modello di sviluppo egemone ha anche ulteriori conseguenze, quasi altrettanto gravi della fame. Sradicati, resi eccentrici rispetto alla propria stessa cultura che è finita nell'angolo, scontano una pesantissima perdita di identità. A ciò si devono le feroci guerre intertribali cui abbiamo assistito, con ipocrita orrore, negli ultimi decenni. Perché le guerre in Africa, sia pur con le ovvie eccezioni di una storia millenaria, avevano sempre avuto una parte minoritaria rispetto alla composizione pacifica fra le sue mille etnie (J.Reader, “Africa”, Mondadori, 2001). E così fra fame, miseria, guerre, sradicamento, distruzione del loro habitat, costretti a vivere con i materiali di risulta del mondo industrializzato (si vada a Lagos, a Nairobi o in qualsiasi altra capitale africana) i neri migrano verso il centro dell'Impero cercandovi una vita migliore. O semplicemente una vita. E i nostri “aiuti”, anche quando non sono pelosi, non solo non sono riusciti a tamponare il fenomeno della fame e della miseria, in Africa e altrove, come è emerso dal recente vertice della Fao tenuto a Roma, ma l'hanno aggravato perché tendono ad integrare ulteriormente le popolazioni del Terzo Mondo nel mercato unico mondiale, stringendo così ancor di più il cappio intorno al loro collo. Alcuni Paesi e intellettuali del Terzo Mondo lo avevano capito per tempo. Una ventina di anni fa, in contemporanea con una delle periodiche riunioni del G7 (allora c'era ancora il G7), i sette Paesi più poveri del mondo, con alla testa l'africano Benin, organizzarono un polemico controsummit al grido: “Per favore non aiutateci più!”. Ma non vennero ascoltati.
Massimo Fini il Fatto quotidiano 13.1.10