La xenofobia tranquilla delle mamme di Adro

Non è facile dimenticare le madri di Adro. Non è facile cancellare le immagini e le parole delle
donne di un laborioso paese del bresciano di 6.800 anime. Non è facile dimenticare le loro
affermazioni rabbiose ed esasperate.
Le madri di Adro mandano i loro bambini all’asilo comunale,
pagano la retta della mensa e - sui giornali e nella trasmissione Annozero - non hanno avuto alcun
disagio ad affermare che era giusto che i figli degli immigrati che non pagavano la mensa
rimanessero senza pranzo.
Lo hanno detto senza mezzi termini: quei bambini non dovevano
mangiare. Bene si era fatto a tagliare loro i pasti. Giustamente si era comportato il loro sindaco
rifiutando quei finanziamenti della Regione Lombardia che dovevano servire proprio perché il
Comune aiutasse i meno abbienti. Se li avesse accettati avrebbe favorito gli immigrati profittatori. E
che male - malissimo - aveva fatto l’imprenditore che si era offerto di pagarle lui le rette delle
mensa. In questo modo aveva incentivato il parassitismo di chi non lavora e approfitta del lavoro
degli altri. Tutto questo lo hanno detto - quelle madri - con la convinzione di chi sta dalla parte
giusta, di chi sta combattendo per il bene contro il male.

Le loro parole non erano sopportabili. Lo so, in esse c’era tutta l’ideologia leghista, l’egoismo
padano, la politica di chi vuole la separazione dai più poveri.
Ma non c’era solo questo. A questo ci
siamo tristemente abituati. Quelle parole e quelle immagini spaventano fino a diventare
insopportabili perché contengono un “salto”, il superamento di un limite umano e morale tanto più
lacerante perché le protagoniste sono donne e madri, coloro dalle quali ci si sarebbe aspettata una
parola diversa o almeno un diverso accento.
Non è stato così. I bambini nelle loro parole non erano
tali, esseri umani più deboli e dipendenti dagli adulti, ma solo figli di immigrati e come tali
“responsabili” delle colpe dei loro padri. Qui c’è stato il superamento del limite.

Perché se la paura dello straniero, la xenofobia, la rabbia contro il povero che può togliere ad altri poveri possono
essere inscritti nel conflitto sociale, possono essere mitigati e persino - anche se non condivisi -compresi,
l’annullamento dell’infanzia, l’identificazione di chi non può che essere innocente nelle
presunte colpe dei padri e delle madri indica che per quelle donne esiste un “male” da combattere
senza tregua, nel quale non ci sono distinzioni, estraneità e non colpevolezze.
All’affermazione
spontanea di chi le ha intervistate: «Ma sono bambini!», le madri di Adro hanno risposto con lo
sguardo vuoto e privo di comprensione di chi non capisce la differenza, non vede la distinzione. «I
figli degli immigrati sono bambini?» domandavano quegli occhi anche quando le labbra non
parlavano.
E si capiva che per loro erano il male e basta.

Un male tanto più grande e pericoloso perché poteva influenzare e contagiare anche altri e dal quale quindi occorreva difendersi senza
cedimenti. Ed ecco la decisione di respingere gli stanziamenti che la Regione Lombardia aveva
disposto perché i Comuni venissero incontro ai meno abbienti, a coloro, per esempio che non
potevano pagare le rette della mensa. Ed ecco che l’odio contro il male comprende anche il
“benefattore”, l’imprenditore che ha offerto 10.000 euro perché il Comune non ci rimettesse e i
bambini potessero mangiare anche se i loro genitori non pagavano la retta. Il bene in questo caso
avrebbe coperto il male profondo e quindi non era tale ma male anch’esso, da portare allo scoperto
e respingere. La storia insegna, nelle grandi tragedie che si sono susseguite nel Ventesimo secolo,
che esse cominciano quando cessa ogni distinzione e un gruppo di persone viene identificato con il
male. Gli ebrei erano ebrei e basta. Non c’erano uomini e donne, adulti e bambini. Non c’erano
malati e sani. Ricchi e poveri. Se c’è un male da estirpare ci vuole una guerra senza esclusione di
colpi, in cui gli innocenti non ci sono. Questa è stata la Shoah e si è verificata nella civile Europa
solo qualche decennio fa
.

Questo è avvenuto in tante persecuzioni e genocidi. L’ideologia leghista,
per quanto xenofoba, finora alcune differenziazioni le ha mantenute per quanto ipocritamente. Ha
distinto per esempio fra l’immigrato clandestino e quello legale. Fra coloro che lavorano e coloro
che spacciano. Anche nella promozione di leggi punitive e poco lungimiranti ha voluto tener conto
sia pure in modo utilitaristico - delle donne che vengono nel nostro Paese a fare le badanti. Le madri
di Adro hanno saltato distinguo e differenze quando hanno detto che i bambini degli immigrati non
avevano diritto al cibo. E lo hanno affermato come se facessero un’affermazione normale ai limiti
della banalità. Meravigliandosi quasi che ci fosse chi non comprendesse.
La banalità, appunto.

Quella banalità del male di cui parlava Hannah Arendt descrivendo nel processo di Gerusalemme il
processo al gerarca nazista Adolf Eichmann. Quel che lui aveva fatto non era dovuto a cattiveria,
ma all’obbedienza a un ordine delle cose che pareva naturale e necessario. Lo so, non c’è alcuna
somiglianza fra le madri di Adro e quel gerarca. Non ci sono campi di sterminio, pogrom ed eccidi.
C’è solo un filo sottile costituito dalla normalità quasi banale con cui quelle madri pretendono il
loro bene.
Non è banale in un laborioso paese del bresciano dire che chi non paga non mangia? Che
questo vale per tutti, adulti e bambini? Certo che lo è soprattutto se lo dicono delle donne, madri di
famiglia che faticano per tirare avanti, amano i loro figli e magari frequentano la parrocchia. Ma è
proprio questo che turba e sconvolge.


Ritanna Armeni     il Riformista  28 aprile 2010


 

 

Si fa presto a dire clandestino

È una testimonianza forte e un’amara riflessione, quella che Laura Boldrini consegna a Tutti
indietro, uscito da Rizzoli. Testimonianza del suo impegno come portavoce dell’Alto
Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, riflessione su paure e diffidenze nei confronti
degli immigrati, ma anche sulla politica del respingimento. Il titolo ha un doppio significato:
l’intimazione indiscriminata a tornare in patria rivolta ai cosiddetti «clandestini» e la paura
nell’affrontare un futuro che si prefigura fatalmente sempre più multietnico.

Perché «cosiddetti»? L’autrice comincia distinguendo quelli che in genere appaiono come sinonimi:
profugo, immigrato, extracomunitario, richiedente asilo.
E clandestino, la parola sicuramente più
inflazionata, capace di proiettare fantasmi nell’immaginario collettivo. E aggiunge due o tre punti
preliminari che aiutano a sgombrare il campo dai preconcetti. Primo, i rifugiati non sono parassiti,
non sognano di vivere alle spalle del paese ospitante, ma una volta sfuggiti a pericoli e minacce dei
luoghi d’origine intendono rifarsi una vita in condizione di normalità. Secondo, accogliere i rifugiati
non è questione di bontà d’animo o carità individuale, ma una faccenda di diritto nazionale e
internazionale da rispettare. Ci sono fior di Convenzioni e Dichiarazioni che sanciscono questo
dovere. L’Italia, per esempio, a suo tempo le ha sottoscritte, anche se non sembra.

Conoscere, prima di giudicare. Il libro si conclude con il padre oscurantista di Laura, che, assistito
in ospedale con intelligenza e cura dalla marocchina Fatima, riesce a vincere ogni pregiudizio. Tutti
indietro è un intreccio di storie di uomini e donne, bambini e bambine in fuga dall’inferno, spesso
per ritrovarsi in altri inferni. Bisognerebbe conoscere il prima e il dopo. Laura Boldrini ce lo
racconta dall’interno, dalla sua esperienza professionale ed emotiva. Si parte dall’incontro con
Zhara, giovane donna somala richiedente asilo con quattro bellissimi figli, che da Lampedusa
finiscono a Crotone, poi per giorni sul Lungotevere di Roma, da Roma a Stoccolma e dalla Svezia
costretti a tornare a Crotone, sopraffatti da fatica e angoscia. E via via si incontrano le vicissitudini
di Sayed, bellissime pagine in cui si segue l’itinerario di questo giovane afghano in fuga da un
destino segnato dai fratelli (arruolati tra i talebani) e sballottato tra abusi, sfruttamenti e prigioni dal
Pakistan alla Turchia all’Iran alla Grecia all’Italia, dove si ritrova a viaggiare nascosto sotto un tir
prima d’essere aiutato da un pizzaiolo di Benevento, per diventare infine mediatore culturale.

Ci sono le missioni pericolose nella valle innevata di Bamiyan, a 230 chilometri da Kabul, dove gli
abitanti vivevano, sotto il regime talebano, dentro caverne di pochi metri. E le prigioni del centro di
Pagani, un incubo sulla splendida isola greca di Lesvos: il sovraffollamento nel fetore
insopportabile, i materassi per terra bagnati dai liquami, i bagni inesistenti. E gli sfollati del Kosovo
a Bajram Curri, sperduta località nel nord dell’Albania, dove l’Onu aveva aperto un ufficio da cui si
raggiungevano in jeep con acqua e biscotti le colonne di profughi stremati. E l’Italia: le coste
pugliesi assediate dai barconi di migranti albanesi.

Bisogna conoscerle, le storie. E bisogna conoscere la Storia: perché quei migranti fuggivano? E
perché a Lampedusa, l’«isola della speranza», approdano (quando ce la fanno) migliaia di diseredati
dall’Africa? La risposta di un giovane somalo che ha rischiato di morire in mare: «Perché in
Somalia ogni giorno si rischia di essere uccisi uscendo di casa».
Basta la politica dei respingimenti, ad arginare il flusso della povertà? Ci sono, piuttosto, in Italia i
pescatori siciliani pronti ad accorrere per salvare i naufraghi, i capitani coraggiosi della Finanza e
della Marina che si prodigano per soccorrere intere famiglie vincendo le tempeste del mare. Laura
Boldrini li racconta da vicinissimo: i giorni terribili di Rosarno; il perché l’Adriatico, mare delle
vacanze e dell’allegria in famiglia durante l’infanzia, è diventato il mare della ferocia che divide
. E
racconta anche il «sodalizio del bene», l’Italia invisibile, consapevole che il localismo identitario
sarebbe un suicidio: operatori, funzionari umanitari, cronisti e cittadini comuni estranei alle parole
d’ordine della politica e agli slogan da
talk show che fanno dei poveracci il capro espiatorio dei
nostri mali.

Paolo Di Stefano       Corriere della Sera 29 aprile 2010