LA VERITA’ E’ SEMPRE IN ESILIO

(George Steiner – Lectio doctoralis tenuta nell’Aula Magna dell’Ateneo Bolognese il 30 Maggio 2006 in occasione del conferimento della laurea honoris causa)

 

Tentare di parlare l’italiano in questo edificio dove probabilmente hanno parlato Dante e Petrarca è una vera impudenza. Nel quartetto delle mie lingue, che definisce la mia mentalità, l’italiano è la viola d’amore. Suonarla così male è per me una vergogna: ancora una volta, vi chiedo perdono.

La crisi dell’università e in particolare degli studi di litterae hu­maniores (un titolo molto orgoglioso) è evidente. Settanta milioni di morti in Europa e nella Russia occidentale dall’agosto 1914 al maggio 1945: uomini, donne, bambini, massacrati nelle battaglie, nei bombardamenti, azzerati nei campi di concentra­mento, messi a morte dalla fame e dalla deportazione. Guerra mondiale? Di fatto guerra civile europea. Il fascismo, l’apocalisse di Auschwitz non sorgono nel de­serto di Gobi o nel Congo ma nel centro del centro dell’alta cultura dell’Europa. Ci sono solo duecento metri tra il giardino di Goethe e la porta di Buchenwald.

Più inquietante ancora: l’umanesimo, la sfera del pensiero morale e metafisico, il trivium e quadrivium come li insegnavano Bologna e tutte le sue figlie nella grande storia dell’università in Occidente, si sono mostrati impotenti davanti alla barbarie. Impotenti. Troppo frequente l’aiuto che dava al totalitarismo una certa élite intellettuale e artistica. Si può dire (è controverso, lo so) che il più grande tra tutti gli scrit­tori di lingua francese, lo scrittore che ha rivoluzionato la lingua francese, Louis Ferdinand Céline; il più grande del pensiero filosofico del ventesimo secolo, Martin Heidegger; la poesia incomparabile di Ezra Pound (eccetera eccetera: il catalogo purtroppo è lungo), fanno parte di un’èlite antiumanistica, antisemitica ai suoi estremi, un’élite della morte. Ecco l’autentica trahison des clercs: la tendenza dell’arte e della filosofia verso l’inumano. Credetemi: la sopravvivenza dell’Europa di oggi, la mera possibilità che esista un giorno feriale come questo sono un miracolo. Un miracolo pagato a un prezzo terribile. È difficile capirne la dimensione misteriosa.

Da qui la necessità imperativa di ripensare il fondamento ontologico dell’ideale tanto debole, tanto ferito, di un’educazione umanistica. La vera cultura umanistica non si trova nell’inondazione postindustriale del monografico, nella specializzazione bizantina che vuol sapere più e di più su meno e di meno. È una fol­lia questa specializzazione inutile. Abbiamo bisogno di ritrovare la visione d’insieme, l’orizzonta­lità, si può dire, della grande tradizione italiana di un Croce, di un Momigliano, la fi­lologia filosofica di Contini, il coraggio di Timpanaro. Di apprendere a leggere insieme, attorno ad un tavolo, a leggere e rileggere un solo verso, inesausto, un verso che canta attraverso i secoli nel Para­diso, “la ‘mpresa/ che fé Nettuno ammirar l’ombra d’Argo”: capire con questo verso l’incarnazione quasi totale del legame organico fra l’antichità classica e il modernismo di domani e di dopodo­mani. L’imago di un Nettuno sommerso che vede passare l’ombra dell’Argonauta è di un surrealismo perfetto, assoluto, è la quintessenza del surrealismo, è un ponte vitale che va da Apol­lonio Rodio a Dante fino a Rim­baud e Lautréamont.

Come radicare questo brano all’interno della nostra coscienza, visceralmente, direi carnalmente? Io ho un sogno infantile, tenere un seminario attorno a un tavolo, se c’è bisogno di due settimane, tre settimane per capire questo verso va bene, non è urgente finire il programma, non è urgente dare l’esame. La prima necessità è insegnare ai giovani la lettura silenziosa (la morte del silenzio nelle nostre città, nella nostra vita quotidiana...), dare ai giovani la gioia di imparare a memoria. Gioia, insisto. Sensazione quasi fisica, quando un brano entra in noi: è una gioia del corpo fare della memoria un talismano contro l’amnesia pianificata della scolarità attuale. E’ terribile la previsione platonica che la scrittura vada a sostituire la memoria, e con la memoria vada perduta una voce interna, un dialogo a viva voce.

In secondo luogo: oggi ci è difficile ricomporre l’optimum dell’avventura intellettuale: il rigore creativo. La scala verso l’avvenire è il moto spirituale e drammatico della scienza. La frattura fra scienza e umanesimo è l’impedimento principale della nostra cultura. E’ una meravigliosa ingiustizia: puoi essere uno scienziato di terzo rango, ma se sei in una buona squadra il successo è assicurato. Nell’umanesimo for­se la totalità della nostra materia è dietro di noi: ogni giorno io penso a Dante, Shakespeare, Mozart, Rembrandt. Per lo scienziato il prossimo lunedì è per definizione più interessante di quello passato. Alcuni problemi della scienza sono oggi determinanti per la vita dell’uomo intero: il problema genetico, il problema del cosmo e dell’origine del tempo. La parola ego cambierà profondamente una volta deci­frata la chimica e la genetica della mente umana: allora dire ego sarà tutta un’altra cosa. La matematica era per Platone ed Aristotele, ma anche per Leibniz e Valéry, la musica del pensiero. Ha detto Leibniz: «Quando Dio cantò, cantò l’algebra», meravigliosa espressione, cantare l’algebra...

Come restaurare il dialogo tra arte e scienza? Come ritrovare una lingua communis in un mondo dove la biologia, la fisica, la genetica sono decisi­ve? Anche la possibilità di partecipare con responsabilità etica e politica al dibattito sull’eutanasia, sulla sovrappopolazione del pianeta, sulla responsabilità legale dell’individuo, dipende sempre più dai programmi di ricerca biologica e genetica; la cosmologia sta riformulando i concetti di tempo e di spazio. Il luogo comune dice che no, non si può trovare una lingua comune, che è troppo difficile la lingua della scienza. Non è vero. È difficile ben scrivere sulle scienze esatte, ma è perfettamente possibile: pensiamo alla prosa lucida del Nuncius di Galileo, pensiamo alla maestria della retorica di Darwin. Grandi scrittori, maestri della letteratura. È difficile, ma è possibile e urgente.

Permettetemi una conclusione un po’ personale. Ho condotto una vita in movimento tra le varie lingue, tra le diverse nazioni, tra le città e le università: l’esistenza di un pellegrino o, per essere malizioso, di un vagante. Porse troppo ho tentato, come dice Dante, di “fare parte per te stesso”. Due convinzioni ha dominato la mia vita intera.

La prima: se la barbarie sopraggiunge non c’è nessun luogo, anche quello più caro, che non si possa abbandonare. Quando viene la barbarie, l’importante è partire. Si prende la valigia. Oggi, in In­ghilterra, viene proposto nell’unione dei docenti universitari di boicottare Israele non pubblicando le ricerche degli studiosi israeliani, non invitandoli ai convegni. Io sono certo che Oxford e Cambridge rifiuteranno questa idiozia, ne sono assolutamente certo. Ma se per un miracolo di stupidità (esistono, i miracoli di stupidità) questa proposta fosse accettata, credetemi, dopo quarantatre anni nel mio college a Cambridge io partirei. Farei le valigie e direi arrivederci. Rimanere vorrebbe dire essere complice, essere implicato nella barbarie.

La seconda convinzione viene dall’insegnamento di un maestro del classicismo, l’imparagonabile Baal Shem: «la verità è sempre in esilio». Meravigliosa paro­la, immensamente ebraica ma anche universale. «La verità è sempre in esilio»... Appena entrato in porto, Ulisse issò nuovamente le vele per un nuovo viaggio. Povera Penelope. Ma quando io ritorno a Bologna, Alma Mater Studiorum, nobile tra le università, ho la sensazione felice e pericolosa di essere accolto nella mia casa. Grazie di tutto il cuore.