La vergogna perduta
un sentimento diventato tabù
Il brano che anticipiamo è tratto da Senza vergogna, il nuovo libro di
Marco Belpoliti , che esce in
questi giorni (Guanda, pagg. 246, euro 16). Il saggio incrocia riflessioni
politiche e culturali su
uno dei fenomeni più visibili nella società di oggi, che rimbalza dalla società
al mondo della
comunicazione e che l'autore sintetizza in un quesito: perché nessuno si
vergogna più? L'episodio
da cui prende le mosse Belpoliti è la festa per i 18 anni di Noemi Letizia a
Casoria, aprile 2009,
alla quale partecipò anche Silvio Berlusconi.
La vergogna non c'è più. Quel sentimento che ci suggerisce di provare un
turbamento, oppure un
senso d'indegnità di fronte alle conseguenze di una nostra frase o azione, che
c'induce a chinare il
capo, abbassare gli occhi, evitare lo sguardo dell'altro, a farci piccoli e
timorosi, sembra scomparso.
Oggi la vergogna, ma anche il pudore, suo fratello gemello, non costituisce più
un freno al trionfo
dell'esibizionismo, al voyeurismo, sia tra la gente comune come tra le classi
dirigenti. La perdita di
valore della vergogna è contestuale a un altro singolare fenomeno:
l'idealizzazione del banale e
dell'insignificante. Lo sguardo ammirato di molti non si rivolge più a
persone di notevole rilievo
morale o intellettuale, bensì a uomini e donne modesti, anonimi, assolutamente
identici all'uomo
della strada o alla donna della porta accanto. Si tratta di un fenomeno
prodotto dalla televisione, da
alcuni programmi di grande ascolto come il Grande Fratello. Günther Anders, il
filosofo tedesco
emigrato in America durante il nazismo, ha scritto che noi «veniamo defraudati
dell'esperienzae
della capacità di prendere posizione».
Come può accadere? Per effetto dell'immagine televisiva
abbiamo davanti un orizzonte molto vasto, «in diretta visione sensibile, ma solo
attraverso le sue
immagini». Incontriamo la realtà «sotto forma di apparenza e fantasma», non il
«mondo» bensì «un
oggetto di consumo che ci viene fornito a domicilio». Anders spiega: «Chi ha
consumato nella
propria stanza ben riscaldata un'esplosione atomica sotto forma di un'immagine
fornita a domicilio,
cioè di una cartolina illustrata in movimento, costui oramai assocerà tutto ciò
che può capitargli di
sentire su una situazione atomica a questo avvenimento domestico di dimensioni
minuscole e con
questo verrà defraudato della capacità di concepire la cosa stessa e di prendere
nei suoi confronti
una posizione adeguata». In questo brano in cui, per altro, compare per la prima
volta l'idea che
viviamo «in uno stato liquido», divenuta celebre attraverso il sociologo Zygmunt
Bauman, Anders
mette a fuoco un problema che ci tocca da vicino, e che influenza anche il modo
attraverso cui si
formano e si manifestano le nostre emozioni, tra cui appunto la vergogna.
L'esperienza che
facciamo è quella dell'assenso che sostituisce il consenso, ovvero del sì
incondizionato e slegato da qualsiasi contenuto.
È in corso un inarrestabile processo di omologazione
fondato sulla democrazia
dei consumi, di cui l'audience è il sistema di valutazione, ma anche il
fine ultimo: spettacolo è tutto
ciò che applaudiamo, scrive Davide Tarizzo, per quanto è ancora vero che non
tutto è spettacolo nel
mondo odierno, contrariamente a quello che sosteneva Guy Debord, creatore della
formula «società
dello spettacolo». In questo contesto la vergogna tende a scomparire, un
sentimento proprio di altre
epoche dell'umanità, in cui il bisogno di esserci, o meglio, di essere visti, e
di vedere tutto, sempre e
comunque, non era così significativo e rilevante, come accade oggi.
La visibilità come obiettivo
ultimo dell'esistenza dei singoli individui.
La vergogna è diventata un tabù. O meglio, si è trasformata in
vergogna di non aver successo, di
non essere notati: la terribile vergogna d'essere nessuno. Ha scritto
uno psicologo che la nostra
vergogna contemporanea consiste nel sentimento del fallimento della propria
esibizione. Ci si
vergogna di vergognarsi, poiché questo richiama l'attenzione di tutti sull'unica
cosa che si vuole
nascondere: l'insuccesso.
Jean Baudrillard ci ha avvertiti parlando del «delitto perfetto», perpetuato dal
trionfo della
televisione: se tutto è esposto alla vista, significa che non c'è più nulla da
vedere.
La realtà stessa sembra scomparire nella totale trasparenza.
Secondo Anna Maria Pandolfi, una psicoanalista che ha
studiato la scomparsa della vergogna, è probabile che l'esibizionismo e il
voyeurismo, che
dominano incontrastati, siano in realtà la spia di una diffusa carenza
d'identità, ovvero di un
narcisismo fragile e povero, «per cui l'essere visti e conosciuti o anche
solo guardati, quale che sia il
prezzo che per ciò si paga, sembra essere l'unico rimedio a un pericolo vissuto
di non valore o
addirittura appunto di non esistenza».
Per quanto riguarda la vergogna, non è più vero, come nel passato, che questa
emozione costituisca
comunque un valore; era ciò che distingueva l'essere umano dagli animali.
La vergogna della società contemporanea è, come si è detto,
una «vergogna sulla pelle» (Á. Heller) o, come dicono gli
psicologi, una «vergogna amorale». Non una vera vergogna, bensì una
vergogna di superficie,
legata appunto all'etica del successo, al conformismo di fondo che, nonostante
le tante parole e
immagini spese per innalzare l'individuo, per affermarlo, in realtà lo sta
omologando sempre più:
diversi, ma sempre più uguali.
La vergogna sulla pelle funziona perfettamente nella società svergognata in cui
viviamo, quella in
cui la barriera del pudore si è molto abbassata, e non solo quella del pudore
sessuale, ma anche del
pudore legato allo scambio delle merci.
Con una formula assai efficace gli studiosi del contemporaneo parlano di
«commercializzazione del
sesso e di sessualizzazione del commercio». La pubblicità è il grande veicolo di
questa
trasformazione dei nostri sentimenti ed emozioni, divenuti essi stessi merci.
L'oscenità che domina
sugli schermi televisivi riguarda qualcosa di più intimo ancora del corpo
stesso, come ha scritto
Battacchi. Nei talk-show i partecipanti non esitano a esibire le
loro emozioni e i sentimenti, i lati
deboli della loro personalità, le mancanze di gusto, i difetti espliciti.
Al pubblico piace, e spesso ci
si fabbrica un cinismo e una cattiveria adatti allo scopo: colpire chi guarda,
farsi ammirare,
diventare dei «divi».
Così la vergogna morale scompare. Come ci spiegano gli
psicologi, la «vergogna morale» comporta
la stretta fusione di senso di colpa e di vergogna.
Essere scoperti nel ruolo di traditori, di vigliacchi, nella condizione
imbarazzante di colpevolezza,
provoca sempre la vergogna morale, mentre la vergogna amorale non è più
legata ad alcuna norma,
ma solo a modelli di consumo, a etichette sociali, al potere personale o
all'esito della competizione
sessuale per la conquista di una donna o di un uomo.
Questo tipo di vergogna non lascia segni profondi, ma solo uno stato transitorio
d'imbarazzo.
Marco Belpoliti la Repubblica 22 aprile 2010