La trappola della memoria condivisa


E’ ormai frequente, in occasione di anniversari che riconducano a momenti critici e controversi
della nostra storia nazionale, sentire il richiamo a una memoria condivisa. Sembrano confondersi,
tuttavia, in questo invito istanze diverse, sulle quali vale la pena riflettere. E in primo luogo per una
questione assai semplice: che il termine memoria è ambiguo per definizione. Connota il giusto
intento di trasmettere alle generazioni più giovani il patrimonio di esperienza di coloro che le hanno
precedute. E, generalmente, indica l’esigenza di tenere viva la lezione che si presume ci abbiano
lasciato avvenimenti tragici che hanno lacerato la nostra società. Ma la memoria è soggettiva,
individuale, e per di più incline a deteriorarsi, a perdersi, a peggiorare. La memoria è il risultato di
sguardi particolari, che non possono essere modificati. Certo, si può affermare che esperienze
comuni abbiano sedimentato una memoria collettiva. È vero. Ma sarà comunque impossibile
conciliare, rendere omogenee, memorie legate a esperienze diverse, derivate da punti di vista e da
adesioni personali o di gruppo totalmente differenti. Perché un partigiano dell’Ossola o della Langa
dovrebbe rimodellare il suo ricordo per accordarlo con un reduce della Monterosa o della X Mas
che gli fu nemico in quei mesi di scontri mortali fra il ’43 e il ’45?
O viceversa. E quale memoria
potrebbero condividere un italiano del Sud e uno del Nord rispetto a quegli avvenimenti?
Si deve intendere il termine memoria come metafora di qualcos’altro. Ovvero come il terreno su cui
far germogliare un processo di riconciliazione nazionale, cioè quell’accordo fra visuali diverse e
distanti che permetterebbe di mettere alle spalle il passato: con la concessione ai «vinti» di qualche
risarcimento morale e di un conseguente restauro di immagine, e con la richiesta ai «vincitori» di
una qualche forma di abiura e di cessione valoriale. Si potrebbe discutere sull’opportunità di una
simile operazione; il fatto è che con tutta evidenza non funziona. Perché ogni guerra civile, dalla
Rivoluzione Francese in avanti, ha sempre lasciato dietro di sé una scia di recriminazioni, di rese
dei conti, di riscritture degli avvenimenti e una molteplicità di memorie differenti e antagoniste.
Esattamente com’è successo in Italia.

La questione è ancora attuale, ma nasce nel profondo della nostra civiltà, quando la guerra del
Peloponneso scosse la Grecia del V secolo a.C. Perché era successo - si chiesero i contemporanei -
che Greci avessero combattuto altri Greci? Tucidide, sulle orme di Erodoto, mise a punto una
procedura che pareva soddisfare quella richiesta di spiegazioni: si doveva fare un’inchiesta, to
historein,
cioè fare storia.
Si doveva procedere a una ricostruzione degli avvenimenti capace di
rispondere onestamente alle domande di verità; fornire un’interpretazione sorretta da prove certe.
Allo stesso modo di un’indagine giudiziaria, o medica. È ancora questo di cui ha bisogno una
qualunque comunità: una buona storia, non manipolata a scopi propagandistici, non piegata dallo
spirito di parte.
La storia italiana è tutta segnata da elementi di frattura e dagli scontri di fazione. Non a caso il
Foscolo, esordiva sulla cattedra di eloquenza all’università di Pavia, nel 1809, con queste parole:
«O Italiani, io vi esorto alle storie, poiché niun popolo più di voi può mostrare né più calamità da
compiangere, né più errori da evitare». E aggiungeva, come rimedio: «Amate palesemente e
generosamente le lettere e la vostra nazione, e potrete alfine conoscervi fra di voi, ed assumere il
coraggio della concordia». Parrebbero parole sensate anche oggi: condividere buoni studi e
un’onesta ricostruzione dei fatti potrebbe corroborare la riconciliazione nazionale, dare prospettiva
al Paese senza patteggiamenti pelosi su come ricordare il nostro passato.
Sappiamo bene che la Resistenza non ha accomunato gli italiani; è stata un’esperienza di pochi,
geograficamente limitata;
nonostante la vulgata comunista, non è stata solo una guerra di
liberazione dallo straniero tedesco, ma anche e talvolta prevalentemente una guerra civile; non ha
visto protagonisti soltanto partigiani comunisti, ma una pluralità di soggetti culturali e politici. E
come tutte le guerre civili, ha trascinato dietro di sé uno sciame di vendette, di storie private confuse
a storie pubbliche. Ma ha avuto un senso preciso e un ruolo decisivo nella vita nazionale. Ed è di
questo che oggi devono ragionare gli italiani, ben oltre le loro memorie personali o familiari; e di là
da ogni bisogno di partito. L’Italia che guarda al futuro ha bisogno di una storia condivisa.
Non furono sagge le parole di De Gaulle, quando in omaggio a un impettito nazionalismo, per
evitare alla Francia un serio esame di coscienza sul suo passato collaborazionista, nel 1969 disse:
«Il nostro Paese non ha bisogno di verità. Ciò che gli occorre è la speranza, un po’ di coesione, uno
scopo». Suonano stonati gli echi di quelle parole, quando si è alle prese in Francia come altrove con
atteggiamenti razzisti e rigurgiti antisemiti. Abbiamo viceversa un gran bisogno di verità, cioè di
una storia plausibile, rigorosa nei suoi metodi di ricerca. E abbiamo bisogno della sua morale
. Che
in questo caso è assai semplice e può essere tranquillamente condivisa: nella storia mondiale del
Novecento, ma si potrebbe dire sempre, la democrazia, per quanto imperfetta, si è rivelata il sistema
politico migliore. Chi ha combattuto per la democrazia merita rispetto e gratitudine.
Chi ha
combattuto per regimi totalitari, in Italia come in Ungheria, in Argentina come in Cambogia, merita
una riflessione, talvolta comprensione, ma non una postuma assoluzione.

Walter Barberis    La Stampa  23 aprile 2009