La Sinistra non tiene il passo a Fini
Alla fine, la rottura fra il presidente del Consiglio e il
presidente della Camera è avvenuta sull’elemento che più caratterizza il regime
autoritario di Berlusconi: il rapporto del leader con la legalità, quindi
con l’etica pubblica. È ormai più di un decennio che il tema era divenuto quasi
tabù, affrontato da pochi custodi della democrazia e della separazione dei
poteri.
Agli italiani la legalità non
interessa, ci si ostinava a dire, né interessano la giustizia violata, la
corruzione più perniciosa che è quella dei magistrati, l’obbligo di obbedienza
alle leggi, il patto tra cittadini che fonda tale obbedienza. Anche per la
sinistra, nostalgica spesso di una democrazia sostanziale più che legale, tutti
questi temi sono stati per lungo tempo sovrastruttura, così come sovrastruttura
era il senso dello Stato e della sua autonomia.
Fini ha ignorato vecchie culture e
nuovo spirito dei tempi e ha guardato più lontano. Ha intuito che uscire dalla
crisi economica significa, ovunque nel mondo, uscita dal malgoverno, dai costi
enormi della corruzione, dall’imbarbarimento del senso dello Stato. Ha visto che
il presente governo e il partito che aveva fondato con Berlusconi erano colmi di
personaggi indagati e spesso compromessi con la malavita. Ha visto che per
difendere la sua visione privatistica della politica, Berlusconi moltiplicava le
offese alla magistratura, alla stampa indipendente, alla Costituzione, all’idea
di un bene comune non appropriabile da privati. E ha costretto il premier a
uscire allo scoperto: lasciando che fosse quest’ultimo a rompere sulla legalità,
sul senso dello Stato, sull’informazione libera, ha provocato un’ammissione
indiretta delle volontà autoritarie che animano il capo del governo e i suoi
amici più fedeli.
In qualche modo, Berlusconi ha
chiesto a Fini e ad alcuni finiani particolarmente intransigenti (Fabio Granata)
di scegliere la cultura dell’illegalità contro la cultura della legalità
che il presidente della Camera andava difendendo con forza. Non solo: più
sottilmente ed essenzialmente, ha chiesto loro di scegliere tra democrazia
oligarchica e autoritaria e democrazia rappresentativa. Il capo del
governo infatti non si limita a anteporre la sovranità del popolo elettore alla
separazione dei poteri e a quello che chiama il «teatrino della politica
politicante». La stessa sovranità popolare è distorta in maniera micidiale, a
partire dal momento in cui essa si forgia su mezzi di informazione (la tv) che
il capo-popolo controlla in toto. La dichiarazione contro Fini dell’ufficio di
presidenza del Pdl, il 29 luglio, erge i disvalori come proprio non segreto
emblema quando afferma: «Le sue posizioni (sulla legalità) sono assolutamente
incompatibili con i principi ispiratori del Popolo della Libertà».
La
sinistra non ha avuto né il coraggio né l’anticonformismo del presidente della
Camera. Fino all’ultimo ha congelato la presa di coscienza italiana
sulle questioni delle legge e della giustizia, ripetendo con pudibonda monotonia
che «l’antiberlusconismo non giova al centrosinistra». E per antiberlusconismo
intendeva proprio questo: combattere il Cavaliere sul terreno dell’etica
pubblica, della legalità, della formazione dell’opinione pubblica attraverso i
media. I problemi erano sempre altri: quasi mai erano la tenuta dello Stato di
diritto, l’informazione televisiva manipolata, la corruzione stessa. C’erano
sempre «questioni più gravi» da affrontare, più urgenti e più alte, prima di
scendere nei piani bassi della legalità.
L’incapacità congenita della sinistra di vietare a chi fa politica un conflitto
d’interessi, specie nell’informazione, nasce da qui ed è destinata a divenire il
vecchio rimorso e il vizio assurdo della sua storia. In fondo, venendo anch’egli
da una cultura totalitaria, Fini ha fatto in questo campo più passi avanti di
quanti ne abbiano fatto tanti uomini dell’ex Pci (lo svantaggio di tempi così
rapidi è che le sue truppe sono labili).
Questo parlar
d'altro, di cose che si presumono più alte e nobili, è la stoffa di cui è fatto
oggi lo spirito dei tempi, non solo in Italia. Uno spirito che contagia anche le
gerarchie ecclesiastiche (non giornali come Famiglia Cristiana), oltre che molti
moderati e uomini della sinistra operaista. È lo stesso Zeitgeist che in
Francia, in pieno scandalo delle tangenti versate illegalmente da Liliane
Bettencourt alla destra, spinge politici di rilievo a far propria l’indignazione
dell’ex premier Raffarin contro la stampa troppo intemperante: «I
francesi e i mezzi di comunicazione sono incapaci di appassionarsi per i grandi
temi». Chi chiude gli occhi davanti al marcio che può manifestarsi nella
politica sempre vorrebbe che i cittadini non vedessero la bestia, dietro
l’angelo e i suoi grandi temi.
Invece l’imperio
della legge fa proprio questo: rivela all’uomo la sua bestialità, gli toglie le
prerogative dell’angelo. Nel descrivere il Decalogo mosaico, che della Legge è
essenza e simbolo, Thomas Mann parla di «quintessenza della decenza umana» (La
Legge, 1944). Alla stessa maniera, la quintessenza dell’esperienza
berlusconiana è il rapporto distorto e irato con la legge e i poteri che la
presidiano: un male italiano che non è nato con lui, ma che lui ha acutizzato.
Un male che conviene finalmente guardare in faccia, perché è da qui che toccherà
ricominciare se si vuol costruire meglio l’Italia. Se si vuol dar vita a
un’opinione pubblica veramente informata, perché munita degli strumenti
necessari alla formazione della propria sovranità democratica.
Per questo la
dissociazione di Fini dai disvalori del Popolo della Libertà non è una frattura
del bipolarismo, né tanto meno un ritorno a vecchi intrugli consociativi. È il
primo atto di un’uscita dall’era di Berlusconi, da una seconda Repubblica che
non ha riaggiustato la prima ma ne ha esasperato monumentalmente i vizi: ed è un
atto che per forza di cose deve essere governato da un arco di partiti molto
largo. Il termine giusto lo ha trovato Casini: si tratta di creare un’«area di
responsabilità istituzionale», non diversamente dal modo di operare di chi
predispose il congedo dal fascismo. Nell’inverno scorso, lo stesso Casini parlò
di Cln, il Comitato di Liberazione Nazionale che nel 1943 associò tutti gli
oppositori al regime mussoliniano. Spetta a quest’area preparare elezioni
davvero libere, dunque creare le basi perché le principali infermità della
repubblica berlusconiana siano sanate. In seguito, il bipolarismo potrà
ricostituirsi su basi differenti.
In
effetti, Berlusconi non è una persona che ha semplicemente abusato del potere.
Le sue leggi, le nomine che ha fatto, il conflitto d’interessi di cui si è
avvalso: tutto questo ha creato un’altra Italia, e quando si parla di regime è
di essa che si parla. Un’Italia dove vigono speciali leggi che proteggono
l’impunità. Un’Italia dove è colpito il braccio armato della malavita anziché il
suo braccio politico, e dove i pentiti di mafia sono screditati e mal protetti
come mai lo furono i pentiti di terrorismo. Un’Italia in cui la sovranità
popolare non potendosi formare viene violata, perché un unico uomo controlla le
informazioni televisive e perché il 70 per cento dei cittadini si fa un’opinione
solo guardando la tv, non informandosi su giornali o Internet.
Un governo che
non curasse in anticipo questi mali (informazione televisiva, legge elettorale
che non premi sproporzionatamente un quarto dell’elettorato, soluzione del
conflitto d'interessi) e che andasse alle urne sotto la guida di Berlusconi non
ci darebbe elezioni libere, ma elezioni coerenti con questo regime e da esso
contaminate.
Barbara Spinelli La Stampa 8/8/2010