LA SHOAH RIDOTTA A
PECCATO TEOLOGICO
Non ci
sfugge l'alto impatto simbolico della visita di papa Benedetto XVI ad Auschwitz,
il campo di sterminio più tragicamente celebre, di tutti il più terribile e
cruento. Tanto più significativo in una fase, come questa, in cui nella Polonia
"postcomunista" imperversa l'antisemitismo protetto, se non legittimato, dallo
Stato.
Non ci sfugge il valore del "pellegrinaggio" compiuto dal pontefice tedesco. E
tuttavia il discorso che egli ha pronunciato domenica non ci ha persuaso - per
molti versi ci ha fatto anzi pensare ad una grande occasione sprecata, dal punto
di vista culturale come da quello del dialogo (non solo) interreligioso.
Perché questa delusione? Perché, in questo discorso, la dimensione umana, la
concreta condizione dell'umanità "qui e ora" e soprattutto la responsabilità
degli uomini che "fanno la storia", sono apparse sovrastate, quasi annullate,
dal richiamo a Dio. Come in una sorta di "eccedenza teologica" che rischia, suo
malgrado, di diventare assolutoria - rispetto alla tragedia del nazismo e
dell'antisemitismo. Non è solo la questione delle colpe da addossare,
eventualmente, al popolo tedesco. E non è soltanto il carattere visibilmente
riduzionistico dell'analisi storica di Benedetto XVI, che ha attribuito il
regime hitleriano, in sostanza, ad un manipolo di «criminali» che avrebbero
«usato» ai loro fini la nazione tedesca, ingannato milioni di persone con false
promesse, «abusato» dell'ignoranza di massa «per la loro smania di distruzione e
di dominio».
Non è così, ci pare di poter dire, che sono andate le cose nella Germania degli
anni Trenta. Ma c'è qualcosa che va perfino oltre la tentazione di circoscrivere
il nazismo e il fascismo ad una "sciagurata parentesi" del ventesimo secolo.
C'è, dicevamo, la riduzione del Male ad un'offesa alla divinità, ad una
negazione delle radici su cui si basa la fede cristiana, in sostanza ad una
astrazione. Ma il Male, quel Male, fu inferto da uomini ad altri - milioni - di
uomini. Ci furono carnefici e ci furono vittime - sempre e tutte umane, milioni
di corpi dilaniati, torturati, massacrati. C'era un sistema, un'ideologia, una
pratica politica. Ma l'esito di tutto questo è «il grido verso Dio: svegliati!»,
è la storia che si scarnifica, fino a scomparire e a farsi, a sua volta, mera
astrazione.
Del resto, ha lo stesso senso l'in-vocazione iniziale del Papa, «perché Signore
hai taciuto? Perché hai potuto tollerare tutto questo?». Dal punto di vista di
un credente, il silenzio di Dio è un evento così imperscrutabile, così
inspiegabile, da rendere vana ogni interrogazione sul Male e le sue radici.
Ma il nazismo e la Shoah non possono esser rappresentati soltanto sotto questa
luce, cioè la drammaticità del "grido" e la difficoltà del rapporto degli uomini
con Dio, con la sua volontà, con il suo "segreto", come dice Benedetto XVI.
Quale "segreto"? L'hitlerismo e lo sterminio degli ebrei sono stati tragedie
concrete, mali storici, esiti di volontà e di scelte umane: cioè il terribile
frutto anche di quella dimensione irrinunciabile che è il libero arbitrio, il
libero divenire degli eventi della storia. Qui, la contraddizione appare
evidente, anche dal punto di vista della dottrina. E Benedetto XVI la affronta
in un altro passaggio del suo discorso, allorché afferma che, in realtà, il
nazismo è stato l'amplificazione, sia pure estrema e degenerata, della "fede nel
dominio dell'uomo": un eccesso assoluto di hubrys, di orgoglio terreno, di
fiducia nelle possibilità dell'uomo "di fare da sé". Un peccato teologico, alla
fin fine.
Ecco, di nuovo, la tendenza assolutoria. Ecco, da capo, riaffacciarsi una
tentazione "totalizzante": quella che nega la modernità e implicitamente
definisce la libertà come ortodossia - libertà di non peccare.
Sarà anche a causa di queste irrisolte aporie che il Pontefice ha cosparso il
suo discorso di omissioni? L'insoddisfazione espressa dai rappresentanti della
comunità ebraica nasce forse più da queste "assenze" che dalle parole
effettivamente dette. Ma è vero che il pontefice non ha pronunciato la parola
"ebrei" né ha ribadito, esplicitamente, la condanna dell'anti-semitismo - altra
parola assente. Ha dimenticato le vittime omosessuali dei campi di sterminio,
che furono molte. Non si è ricordato dei bambini e dei portatori di handicap
torturati e sterminati. Non ha rivolto neppure un vago accenno alla
responsabilità della Chiesa cattolica nella persecuzione degli ebrei - e nel
sostegno silenzioso al regime di Hitler.
Ma non ha pesato, drammaticamente, insieme al silenzio di Dio, il silenzio del
vicario di Dio, Pio XII? E di larga parte della cristianità, come dell'Occidente
liberale? Un Papa, è facile obiezione, può essere profetico e coraggioso quanto
si vuole, ma non si può mai spingere fino a questi livelli di riconoscimento
autocritico. Eppure, proprio sul terreno complesso e drammatico del rapporto tra
cattolicesimo ed ebraismo, papa Wojtyla, che fu tutto fuorché un progressista,
si era spinto davvero molto oltre.
Con Ratzinger la Chiesa ha imboccato una strada diversa, che seppellisce
definitivamente la stagione del Concilio Vaticano II e torna alla custodia
fredda e meticolosa, quasi ossessiva, dell'ortodossia della tradizione. Ma il
XXI secolo o sarà eterodosso o non sarà - anche dal punto di vista della
cristianità.
Rina Gagliardi Liberazione - 30 maggio 2006