La secolarizzazione. I giorni
del sacro dell’uomo moderno
Guardando le pratiche degli acquisti e dei consumi sembra che nella
nostra cultura il Natale sia ormai già ateo. Di religioso è rimasto soltanto il
rito. Come si è giunti da una misera stalla al luccichio di negozi e
supermercati
Natale è ancora una festa cristiana? Anche per l´ateo che non crede in Dio, per
l´agnostico che non sa se Dio c´è, per il laico che nelle sue scelte etiche
prescinde dalla nozione di Dio? Guardando le pratiche natalizie degli acquisti e
dei consumi sembra che nella nostra cultura il Natale sia ormai già ateo, o se
preferiamo agnostico, certo profondamente laico. Di cristiano è rimasto solo il
rito che si ripete, la ricorrenza che ritorna, la festa che, come nessun´altra,
è davvero "comandata".
Comandata da chi? Dalla nostra economia naturalmente che, per quanto in affanno,
resta comunque un´economia dell´opulenza dove il consumo e lo spreco sono sotto
gli occhi di tutti in un tripudio di malcelata festività. E allora come
conciliare la cultura cristiana che si è soliti individuare come forma
dell´Occidente, con il livello di ricchezza e abbondanza raggiunto dalle società
occidentali?
Varrebbe la pena di fare esplodere questa contraddizione così ben palesata
dall´albero di Natale, simbolo non cristiano dove traluce il nostro benessere,
che ha preso il posto del presepe cristiano che è invece spettacolo
dell´indigenza e della povertà. Dalla stalla dove è nato Gesù il senso del
Natale cristiano si è infatti trasferito nel luccichio dei negozi, nella
sovrabbondanza dei supermercati, nelle evasioni promesse dalle agenzie di
viaggio, per cui la domanda non è: che senso ha la festività di Natale per un
laico, ma che significato essa ancora possiede per un cristiano che vive in una
cultura opulenta, e in ogni suo aspetto laicizzata, dell´Occidente "cristiano"?
Non basta un po´ di volontariato quanto mai benefico, ma decisamente
insufficiente, per attutire gli inconvenienti che nascono dalla logica ferrea
del mercato che non prevede il dono, ma la rigida contrattazione. Così come non
basta fare "doni" a Natale per mascherare la legge economica del profitto che
governa l´Occidente. No, non basta. E allora diciamolo: l´Occidente forse non è
più cristiano e la completa laicizzazione del Natale, la festa cristiana per
eccellenza, è solo una conferma che il cristianesimo in quella sua vera essenza
che è l´amore per il prossimo, lontano o vicino che sia, in Occidente non ha più
casa, né chiesa, né luogo dove trovare espressione. Ne è prova la povertà del
mondo che langue inespressiva nelle coscienze dell´Occidente cristiano, notizia
smarrita tra le tante che, nell´indifferenza generale, giungono da terre che
l´Occidente considera straniere?
E allora il cielo sopra la grotta del presepe di Natale diventa un testimone
indifferente dove, esausto, si ripete il rito della nascita di Gesù, con santi e
angeli che non hanno sguardo per ciò che capita sotto i loro occhi. Il tempo
della speranza, che il cristianesimo ha inaugurato e che Papa Ratzinger ha
riproposto nella sua ultima enciclica, si è fatto così lontano da diventare
estraneo al nostro sguardo, perché ormai siamo alla cruda accettazione della
casualità della nostra esistenza, senza neppure l´inquietudine della crisi,
senza il gusto di vivere questo tormento, nuova ed eccitante maniera di
percorrere il nostro tragitto, che a Natale ci porta ritualmente nella casa dove
siamo nati per onorare il padre e la madre, ultima orma del sacro, da cui
l´indomani ci congediamo per incamminarci di nuovo lungo la via che del sacro ha
perso non solo l´origine, ma anche la traccia.
Eppure nella grotta di Betlemme, per i cristiani, il divino s´è fatto terreno, e
la terra è diventata la dimora di Dio. Allora il tempo si è spaccato in due:
prima e dopo Cristo. La natura e il suo ciclo hanno ceduto al futuro e alla sua
promessa. Il tempo, reso gravido di senso, ha cessato di essere puro e
indifferente "divenire" ed è diventato "storia". In questo modo il cristianesimo
si è separato dalle mitologie primitive che leggono il tempo a partire dal
"passato", da un´età dell´oro o paradiso perduto in cui si rifugia la nostalgia,
perché il cristianesimo proietta la salvezza in quel possibile "futuro" a cui si
agganciano sia l´utopia, sia la rivoluzione, quando la nuova figurazione del
tempo, inaugurato dal cristianesimo, si contamina con l´ateismo della speranza.
Per lontane che possano sembrare, utopia, progresso e rivoluzione sono eventi
cristiani, appartengono al tempo "dopo" Cristo, scavano il motivo della
speranza, sondano possibilità di salvezza, credono che la storia abbia un senso,
guardano con sospetto il nietzscheano "tempo senza meta".
L´Occidente è stato sedotto da questo nuovo modello di temporalità e, in
versione cristiana, utopica o rivoluzionaria, ha sempre celebrato nel Natale non
il ritmo del "ritorno", ma l´atmosfera della "rinascita", l´entusiasmo di ciò
che ancora è in grado di promettere il futuro: la promessa del tempo. È ancora
in circolazione questa promessa che è tutta cristiana? A me pare di no. Da
quando il denaro è diventato in Occidente l´unico generatore simbolico di tutti
i valori e la tecnica il mezzo per conseguirli, senz´altro scopo che non sia il
suo autopotenziamento, il futuro non appare più come promessa, e ancor meno come
speranza. I suoi tratti sembrano piuttosto quelli dell´incertezza e
dell´indecifrabilità.
E allora che ne è del cristianesimo che ha fatto la sua irruzione nel tempo
annunciando proprio il futuro come speranza? In Occidente se ne è persa la
traccia. Non so se questo sia un bene o un male. È semplicemente così. Ma se
riconosciamo che la nostra cultura è regolata unicamente dalla rigida legge del
mercato ed è disposta a ospitare solo qualche deroga in forma di elemosina,
beneficenza e volontariato (utili più ad alleviare il senso di colpa connesso al
nostro privilegio che a trasformare le condizioni più disastrose del mondo),
allora evitiamo almeno quella falsa coscienza che ci porta a identificare
l´Occidente con il cristianesimo. Mai come oggi le due culture appaiono
abissalmente distanti. E il modo con cui ogni anno festeggiamo il Natale ne
segna inequivocabilmente il disagio e la contraddizione.
Umberto Galimberti Repubblica 21.12.07