La scuola le proteste e la verità sulla riforma
Che cosa rivelano le contestazioni contro il ministro. La verità sulla riforma Gelmini e le sue spine. L´avversione al decreto potenziata dalle prepotenti e sciocche minacce berlusconiane .
Venezia agli albori del Novecento conobbe il primo sciopero generale spontaneo
della sua storia. La manifestazione in piazza S. Marco indetta dai nascenti
sindacati vide, però, una partecipazione preponderante di donne. La ragione di
questa presenza, straordinaria e sorprendente per l´epoca, risiedeva nel fatto
che la protesta era scoppiata per un motivo davvero singolare: una puerpera era
stata costretta a partorire, senza soccorso, sui gradini dell´Ospedale Maggiore,
all´aria aperta. Il fatto venne assunto a simbolo di qualcosa di molto più
generale: l´insopportabilità dell´assenza, al di fuori delle opere di carità
cattoliche, di qualsiasi forma di pubblica assistenza. Il Welfare State era,
infatti, al di là da venire.
Questo lontanissimo episodio mi è venuto alla mente riflettendo sulla tumultuosa
e massiccia protesta del mondo della scuola dilagata in questi giorni in tutta
Italia in odio al decreto Gelmini. Eppure quel decreto, tradotto ora in legge,
non conteneva minacce tanto dirompenti da giustificarne il crucifige, anche se
su un punto il maestro unico alle elementari e le diminuzioni di insegnanti che
ciò implica meritava un ripensamento di fondo, di cui parleremo più avanti.
L´avversione al decreto, potenziata dalle prepotenti quanto sciocche minacce
berlusconiane, si è invece caricata di ben altri significati appunto come quel
parto davanti all´ospedale e ha dato alle manifestazioni studentesche
motivazioni assai più ampie, pur se confuse, che spaziavano dalle elementari
all´Università. Comunque, tra tutte, la più forte, in parte giusta e in parte
sbagliata, è stata quella contro tutti i tagli previsti (non dalla Gelmini ma
dalla Finanziaria, approvata senza che nessuno fiatasse tre mesi orsono). Di
tutto questo si è appropriata l´opposizione e non è pensabile che facesse
altrimenti.
Assurdo, quindi, ogni biasimo sulla carenza
di fair play riformista, dimostrata in questa contingenza da Walter Veltroni.
Quel che per contro potrebbe essere rilevata criticamente è l´assunzione, senza
beneficio d´inventario, della proteiforme nebulosa protestataria, rinunciando in
partenza ad un intervento per darle uno sbocco razionale e positivo,
interpretando il disagio reale della scuola, ancorché sotteso a slogan
inconsistenti, studiando e scegliendo obiettivi possibili e immediati, quanto
prospettando mete di riordino a più lungo termine. Così non è stato. Alcun
ascolto ha trovato, inoltre, l´appello di Giorgio Napolitano, pronunciato
all´apertura dell´anno scolastico, perché si affrontassero con «senso della
misura e realismo le questioni più spinose, compresi gli impegni finanziari...
L´Italia - specificava per maggior chiarezza il Capo dello Stato - nel suo
stesso vitale interesse deve ridurre a zero nei prossimi anni il suo deficit
pubblico... nessuna parte sociale e politica può sfuggire a questo imperativo ed
esso comporta anche - inutile negarlo - un contenimento della spesa per la
scuola... l´obbiettivo non può prevalere su tutti gli altri e va formulato,
punto per punto, con grande attenzione, in un clima di dialogo. Ma ciò non può
risolversi nel rifiuto di ogni revisione necessaria a fini di risparmio».
La risposta non poteva essere più deludente: Berlusconi ha inteso l´invito al
confronto come un incentivo alla minaccia poliziesca, Veltroni ha preferito la
deriva populista di facile presa ma scarsa prospettiva, ribadendo un No
preclusivo a tutti i tagli e annunciando un discutibilissimo referendum
anti-Gelmini, peraltro improponibile in materia finanziaria. Per contro era
possibile avanzare contro proposte convincenti sia sul maestro unico e sugli
sprechi, elencati voce per voce in un dossier di «Tuttoscuola», l´ottima agenzia
indipendente che su Internet monitorizza quotidianamente la vita scolastica.
Il decreto Gelmini, peraltro, nel suo impianto globale si muoveva esplicitamente
lungo il solco della correzione di rotta già impresso da Fioroni e Bastico,
ministro e vice ministro del governo Prodi, per riportare un minimo d´ordine e
di serietà negli studi. Lo prova le lettura degli otto articoli della legge che
riguardano nell´ordine l´introduzione dell´insegnamento su «Cittadinanza e
Costituzione», la conferma della revisione anti-bullismo dello Statuto degli
studenti, messa a punto da Fioroni con la valutazione in pagella e in sede di
scrutinio finale del comportamento, un tempo chiamato «condotta», la misura in
decimi del voto, la necessità di conseguire almeno la media del 6 per la
promozione e l´ammissione all´esame di Stato, l´obbligo per gli editori di
adottare libri di testo validi per cinque anni, così da non costringere le
famiglie a continui esborsi per inutili aggiornamenti, l´abilitazione
all´insegnamento nelle scuole elementari e dell´infanzia per chi abbia ottenuto
la laurea in scienza della formazione primaria, infine una modifica delle norme
di accesso alle scuole di specializzazione medica.
Veniamo al contestato articolo sul maestro unico che, in realtà, sarebbe più
giusto definire come una disposizione sul tempo-scuola, ridotto a 24 ore
settimanali, come era fino al 1990. Qui incidono i tagli destinati a risparmiare
su precari-supplenti. Ma, per un giudizio motivato, è utile ricordare cosa si
proponeva la riforma della mitica ministra Falcucci, dc doc mai abbastanza
rimpianta. Per ampliare il ventaglio di conoscenze già nell´età infantile e, ad
un tempo, per consentire al più gran numero di madri di entrare nel mercato del
lavoro, venne deciso di procedere gradualmente e attraverso sperimentazioni e
verifiche a una modifica radicale, portando inizialmente l´orario normale da 24
a 27 ore e, via via a 30, mano a mano che le scuole si mettevano in grado di
assumere un insegnante per la lingua straniera, la cui introduzione era il vero
clou della riforma. Questo avrebbe comportato due ritorni pomeridiani la
settimana o l´organizzazione di una mensa scolastica ad opera dei Comuni. Un
servizio indispensabile nel momento in cui andava a regime il secondo pilastro
della riforma, un tempo pieno di 40 ore settimanali, compresa la pausa pranzo.
Anche l´insegnamento variava di tenore tra le lezioni mattutine e le attività
pomeridiane. Fu una stagione di forte innovazione pedagogica - come rievoca sul
suo blog Marco Rossi-Doria, fondatore del movimento dei «maestri di strada» nei
Quartieri Spagnoli di Napoli - generata da molti fattori, dalla spinta
all´accesso al lavoro di nuove generazioni femminili in un contesto economico in
evoluzione all´esigenza di aprire un fronte precoce contro l´analfabetismo che
nasce dalla povertà e la genera a sua volta, largamente diffuso nel Mezzogiorno.
L´idea di più docenti per classe nacque dalla verifica delle urgenze educative
enormi che il Paese cominciava a sentire, ma la loro progressiva introduzione
era stata immaginata e sperimentata come una costellazione che, soltanto dalla
terza elementare in poi, avrebbe ruotato attorno alla figura-chiave della
maestra centrale (i maestri sono solo il 4%) affiancata dagli insegnanti
specializzati per la lingua straniera, l´educazione motoria e il sostegno ai
disabili, liberati dalle classi differenziate, l´educazione musicale e
artistica. Su questo impianto, mentre i Comuni dovevano assicurare le mense
scolastiche, la riforma Falcucci prolungava l´orario e introduceva di massima i
«moduli» di tre insegnanti per due classi, così da consentire il tempo pieno e
una formazione più articolata, con «classi aperte». Solo a questo punto ci fu
l´improvvido intervento negativo dei sindacati e di quasi tutto
l´associazionismo cattolico e laico, sostenuto alla fine dal centro-sinistra e
dal Pci. Fu un attacco volgare contro la «maestra chioccia», in nome
dell´eguaglianza fra gli insegnanti, che divennero per legge tutti «contitolari»
della classe. Alla collaborazione fra docenti, che si svolgeva nelle «classi
aperte» fra alunni di vario grado, una forma dell´autonomia che aveva cominciato
a funzionare benissimo sulla base di un autentico rinnovamento pedagogico, si
sostituirono «moduli» rigidi e decisi dal centro. In realtà questa
organizzazione, che ingessò la riforma in una gabbia burocratica e aumentò
l´organico oltre il necessario, venne suggerita non da valutazioni educative ma
dalla paura che la curva demografica, segnata dal calo in pochi anni degli
alunni delle elementari da quasi cinque milioni a 3.247.000, decurtasse
inevitabilmente anche il numero degli insegnanti. Da qui, dunque, si poteva
ripartire oggi per un confronto che recuperasse il senso profondo della riforma
Falcucci, risparmiando dove era giusto ma senza annullare tutto con un tratto di
penna.
Non voglio, peraltro, ignorare l´impegno proclamato dall´on. Gelmini, secondo
cui il tempo pieno, per chi già ne gode, non verrà scalfito. È una verità
parziale che nasconde una realtà molto amara. La nuova legge, infatti, riduce le
ore di scuola per i bambini dai 3 ai 10 anni e lo fa.... dove non c´è tempo
pieno. Questo, infatti, non è distribuito egualmente nel territorio: a Milano
copre l´89,5% degli alunni, a Torino il 65,5, a Roma il 54,4 ma a Napoli solo
l´1,5 e in tutto il Sud non raggiunge il 9% delle scuole. La legge fotografa e
congela questa situazione. I bambini e le mamme del Nord avranno il mantenimento
delle risorse che saranno decurtate al Sud. Qui i bambini usciranno alle 12,30
già l´anno prossimo e l´effetto seguiterà a ricadere sulle madri meridionali,
che tanto per il 62% sono fuori del mercato del lavoro. E Comuni e Regioni
potranno seguitare a trascurare l´organizzazione delle mense scolastiche.
Un ultimo post scriptum: se invece di compiacersi del gran casino, l´opposizione
riformista volesse avanzare delle controproposte in materia di tagli, perché non
affrontare la possibilità di abolire, come in tutti i paesi europei, il quinto
anno delle superiori e permettere ai giovani italiani di ottenere il diploma a
17 anni, come francesi, tedeschi e inglesi, invece di restare nei banchi fino a
18 ed avviarsi al lavoro o alle Università a 19
Mario Pirani La Repubblica 10/11/2008