La rivolta dei nuovi esclusi
Come una legge meccanica, prima o poi la crisi economica che stiamo vivendo
doveva produrre effetti culturali, politici e sociali: ci siamo. I nodi che
vengono al pettine, l´altro ieri a Londra per strada, con la morte di un uomo,
l´altro giorno in Francia, domani in Italia o dovunque nelle capitali del Primo
Mondo tutte uguali e indifferenti come paesaggio della crisi sono l´inizio del
secondo atto di questa rivoluzione in corso nella vita dell´uomo occidentale.
Proviamo a misurarne cause, ragioni ed effetti liberandoci subito dal ricatto
che ogni volta pesa sulla discussione pubblica, dicendo per oggi e per domani
che gli atti violenti sono sempre inaccettabili, da qualunque motivazione siano
sorretti.
Ma subito dopo domandiamoci: quanta violenza c´è in questa crisi che
brucia lavoro, valore, progetti di vita incompiuti, destini? La politica, la
cultura, qualcuno di noi si è preoccupato di misurarla, di darle un peso e
quindi un nome e un significato di cui tenere conto?
E´ difficile
negare l´impressione che i grandi della terra riuniti a Buckingham Palace
davanti alla Regina e poi a cena a Downing Street fossero ieri leader senza
rappresentanza. Da qualche parte da qualunque parte nei nostri Paesi ormai
si muove una massa sommersa di persone che fanno separatamente i conti
individuali con la crisi, non solo e non tanto in termini di perdita di valore,
ma in termini di vita, di sussistenza, di identità e di ruolo sociale. Per loro
è tornata centrale, nella nebbia globale della crisi, nello stordimento della
finanza, la grande questione novecentesca del lavoro: lo hanno perso, lo stanno
perdendo, o non riescono nemmeno a trovarlo una prima volta. E scoprono che
senza lavoro, perdono d´importanza i diritti post-materialistici, come li
chiamano i sociologi, quelli dell´ultima modernità, che vengono dopo la piena
soddisfazione dei bisogni primari.
Anzi, senza lavoro, con ciò che ne consegue, viene meno un interesse per ogni
discorso pubblico, per il paese, per la vicenda collettiva. Senza il lavoro,
ecco oggi il punto, queste persone si sentono ex cittadini. E quei ragazzi per
strada, a Londra svolgevano paradossalmente l´unica rappresentanza oggi visibile
di quel mondo che non sa a chi rivolgersi per farsi sentire.
La politica è in difficoltà perché aveva superato la questione del lavoro
come se fosse antica. La cultura l´aveva resa impronunciabile,
eufemizzandola con parole che non vogliono dire niente, "saperi", "competenze",
"professionalità". Il capitalismo aveva addirittura creduto di poter rompere il
nesso che per tutto il secolo scorso lo aveva legato al lavoro, liberandosene
per proseguire da solo.
Il capitale senza il lavoro è così diventato uno dei motori di questa
crisi, perché ha ridotto la complessità della globalizzazione ad una sola
dimensione, quella economica, ha sostituito l´autonomia della finanza
all´autonomia della politica, resa marginale o servente fino a consumare il
nesso che nelle democrazie ha sempre legato i ricchi e i poveri.
Col risultato di far saltare il tavolo della responsabilità democratica che in
Occidente teneva insieme i vincenti e i perdenti della globalizzazione e che
nello Stato-nazione era anche il tavolo di compensazione dei conflitti, il
nucleo stesso del progetto occidentale di modernità, con l´incontro regolato e
consapevole tra il capitalismo, il lavoro, lo stato sociale e la democrazia.
E' quell´alleanza che oggi è andata in crisi, con devastazioni prima culturali e
politiche, poi per forza di cose sociali. Qui è cresciuta la nuovissima
separatezza delle élite, che le rinchiude in una legittima aristocrazia dei
talenti, incapace però di riconoscere obblighi generali, doveri pubblici, di
produrre un dibattito che parli all´insieme del paese e distribuisca valori
collettivi.
Attraverso questo meccanismo l´élite si trasforma in classe separata invece di
diventare establishment, cioè gruppo dirigente testimone di regole che valgono
per tutti e dunque parlano a tutti, esercitando pubblicamente il privilegio di
avere responsabilità.
Da qui nasce la frattura sociale che abbiamo davanti e che la crisi porta per
strada. Senza questa alleanza occidentale tra capitale e lavoro, tra
responsabilità e democrazia può succedere che l´orgia speculativa non solo
distorca il mercato finanziario, ma acquisti come già prima del disastro del ´29
lo notava Galbraith una stupefacente centralità culturale nel nostro tempo,
dunque una legittimazione collettiva. Col risultato denunciato da Michael Walzer
quando «il denaro oltrepassa i confini» e senza più alcuna barriera culturale
prova ad acquisire beni sociali come fossero merce, privilegi, favori,
esenzioni, ruoli, incarichi, corrompendo. Ecco perché la crisi economica rischia
di diventare crisi di legittimità, deficit di uguaglianza, problema di
democrazia. Mai il sentimento di esclusione degli sconfitti è stato così forte.
Mai l´impotenza della governance mondiale è stata così evidente,
aggravata dalla crescita dei bisogni reali, che con i ritmi della disoccupazione
sta diventando emergenza. Va in crisi il principio stesso di cittadinanza,
il rapporto con lo Stato, la relazione tra libertà e potere, mentre i nuovi
perdenti della globalizzazione non hanno più nemmeno un sovrano certo e un
territorio definito per muovere la loro protesta.
Dopo aver vinto la sfida del Novecento l´Occidente rischia di perdere qui, di
fronte all´unica domanda che conta per gli esclusi: qual è infine
l´efficacia della democrazia, la sua capacità di risposta, la sua soglia di
sensibilità e di attenzione? Quanta nuova povertà può sopportare in casa sua,
dopo aver guardato alla televisione per decenni la povertà atavica degli altri?
Quale politica sa produrre? E capace di condivisione, la democrazia, o solo di
compassione, cioè di qualcosa che ha valore morale ma certo non politico?
Di fronte a questo malessere democratico che stiamo vivendo nulla è fuori corso
come il pensiero di una "rivoluzione conservatrice", centrata su soggetti forti
e sull´assenza dello Stato e delle sue regole. Bisognerebbe che la sinistra
lo capisse, si ricordasse dei suoi obblighi verso l´uguaglianza, del lungo
cammino per l´inclusione, per i diritti, per coniugare le libertà politiche con
la sicurezza materiale. Il secolo scorso è stato, alla resa dei conti,
lunghissimo, se il progetto della modernità democratica occidentale è durato
fino ad oggi, vivo. Gli strumenti della sinistra sono i più adatti a
conservarlo, modificandolo sotto la spinta della crisi, ma salvandolo. Basta
saperlo. Anche perché se quel progetto salta, non ci sarà più sinistra, nella
post-democrazia in cui rischiamo di vivere.
Ezio Mauro Repubblica 3.4.09