La ricerca
impossibile di papa Benedetto XVI
Si è tentati di vedere in Benedetto XVI la personificazione del Grande
Inquisitore descritto da Fedor
Dostojevski. L'immagine che ha dato di un cardinale conservatore cristallizzato
nelle sue certezze e
la funzione di prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, ex
tribunale dell'Inquisizione,
da lui esercitata per ventiquattro anni, spingono a questa interpretazione. Il
personaggio, che appare
nei Fratelli Karamazov, prende su di sé i dubbi e le angosce degli uomini e
impone loro delle
certezze, senza le quali non possono, secondo lui, affrontare la loro condizione
umana con la
serenità a cui aspirano. Forse è così. La lettura di alcuni dei suoi scritti o
dei suoi discorsi rivela
innanzitutto un uomo che cerca – disperatamente? - una risposta energica per
impedire il ritorno di
fenomeni simili a quello che lui ha conosciuto nell'adolescenza con il nazismo,
o con cui si è
scontrato in seguito con il comunismo e oggi con il fondamentalismo islamico. Da
un testo all'altro,
esamina i diversi fondamenti di un'etica suscettibile di imporsi e scopre le
minacce celate in ognuno
di essi. La domanda che suscita è forse, in ultima analisi, quella di sapere
se può esistere un assoluto
che sia in grado di premunire l'uomo contro le pulsioni distruttrici che sono in
lui. Il carattere
profondamente tragico di questo interrogativo sta nel fatto che tutta la storia
dell'umanità suggerisce
una risposta negativa.
Quell'assoluto, Benedetto XVI non lo cerca né nelle
religioni minacciate dal
“fanatismo fondamentalista” né in una ragione che ignorerebbe la questione di
Dio, ma nella loro
sintesi. Il discorso pronunciato al Collège des Bernardins è tutto impregnato di
questa ricerca.
Prima di tutto per la sua insistenza a mostrare che il cristianesimo non
potrebbe essere univoco e
fisso. Sottolinea così che la sua religione esige un'interpretazione e che essa
è molteplice: “La
parola di Dio ci perviene solo attraverso la parola umana, attraverso delle
parole umane.” E inoltre,
tale interpretazione non potrebbe essere data una volta per tutte, ma
costituisce una “sfida sempre
nuova posta ad ogni generazione”. Anche se non lo dice esplicitamente, questo
bisogno sempre
ripetuto di interpretazione del cristianesimo lo oppone all'islam, nel quale Dio
si rivolge
direttamente agli uomini, in quanto il Profeta non ha fatto altro che
raccogliere le parole da lui
dettate. Questa concezione ha ampiamente contribuito ad impedire qualsiasi
adattamento della
rivelazione coranica alla storia. Dopo aver quindi riconosciuto la necessità di
un adattamento
permanente del cristianesimo, Benedetto XVI avanza una concezione “razionale”
della religione,
che appare alquanto anacronistica. Non si capisce bene come il rinviare
“nell'ambito soggettivo, in
quanto non scientifico, la questione riguardante Dio, sarebbe la capitolazione
della ragione”. La
religione sembra oggi condannata a fare a meno dell'avallo della scienza.
Non è forse liberandosi
dalla pericolosa appropriazione da parte della fede che la scienza ha potuto
svilupparsi, dopo essere
stata vessata per secoli da una Chiesa opprimente? Bisogna ricordare che
l'unione della fede e del
pensiero greco, vantata dal papa, ha raramente impedito alla Chiesa di
combattere i miscredenti e
gli eretici, fra i quali gli scienziati il cui pensiero divergeva dalle norme
che essa emanava? La
ragione deve quindi, con tutta evidenza, giocare un ruolo fondamentale nel
lavoro degli esegeti per
reinterpretare e relativizzare certi passaggi dei messaggi religiosi, tenendo
conto del contesto storico
nel quale sono stati concepiti. Ciò non autorizza comunque i rappresentanti
delle religioni a parlare
in nome della ragione, né a richiamarvisi per fondare la verità. Per quanto
rispettabili siano le
motivazioni del papa, ci si può interrogare sulle loro implicazioni e chiedersi
se non insegua una
chimera. Tutti gli assoluti non sono forse temibili proprio perché mettono
un'astrazione al di sopra
dell'essere umano nella sua infinita diversità? La democrazia laica può certo
suscitare l'inquietudine
e lo sgomento esistenziale, ma non ha mai provocato le oppressioni, i disastri
umani ai quali hanno
condotto tanti assoluti – religiosi o ideologici – che sono stati in auge nei
diversi momenti della
storia.
Ipoteticamente, possono esistere delle regole fissate in nome
di un'entità atemporale che
costringerebbero ognuno di noi ad agire conformemente ad un'etica? Allora, non
sarebbe preferibile
invertire la prospettiva e partire dall'umano per definire un'etica? È meno che
mai evidente che delle
verità rivelate, che appaiono dubbie ad un gran numero di persone, possano
essere il miglior garante
del rispetto dei grandi principi etici a cui aspira, a giusto titolo, il papa.
Non è forse ritrovando il
senso della trasmissione che l'uomo si convincerà con maggior forza del
carattere sacro della vita
umana? Il suo inserimento nella catena delle generazioni non è forse l'unica
prospettiva di
superamento della vita individuale in un mondo in cui la Chiesa non può più
giocare il ruolo di “una
compagnia di assicurazioni per l'al di là” secondo l'espressione di Kierkegaard?
Forse non è di una
“liberazione spirituale”, per riprendere la strana espressione del papa nelle
parole rivolte ai vescovi,
che la società francese ha bisogno, ma di essere confortata nell'idea che, per
quanto esigente, la
democrazia laica, rinviando tutte le ricerche spirituali all'ambito soggettivo,
è l'unica a permettere a
ciascuno di cercare liberamente il proprio senso della vita e i propri valori.
André Grjebine, direttore di
ricerca a Scienze politiche, Centro studi di ricerche
internazionali (Ceri)
in “Libération” del 17 settembre 2008 ( quotidiano
francese)