La
resistenza della Liberazione
Festa della Liberazione o Festa della Libertà? La disputa non è meramente
nominalistica, né le parole suggerite in un ennesimo colpo di teatro dal
presidente del consiglio si devono considerare una mera boutade. Dietro
quelle parole c'è certamente una buona parte di strumentalismo ma c'è anche
l'espressione di un cambiamento, di un progetto politico. Se si tratti
di uno di quei gesti capaci di modificare o di rappresentare una cultura
politica, come è accaduto più di una volta in un'epoca così fortemente dominata
dagli effetti mediatici, lo vedremo in un futuro assai prossimo. Ciò che
comunque non può non suscitare meraviglia e sollecitare un senso di vigile
attesa è la repentinità di certi improvvisi voltafaccia, non più le
conversioni di singoli ma quelle di un'intera maggioranza che cambia musica non
appena il suo padrone accenna a intonare un motivo diverso. Un
atteggiamento che alimenta dubbi non sulla fedeltà dei gregari al capo ma della
sincerità e quindi dell'affidabilità della improvvisa conversione.
Detto questo, comunque, qualche ulteriore considerazione si impone circa
il significato da dare alle parole che, appunto, non sono soltanto parole al
vento ma implicano significati e sintetizzano un intero modo di vedere le cose,
esprimono l'interpretazione di eventi storici.
Un'analisi delle parole del presidente del consiglio in occasione del 25 aprile implicherebbe una ricognizione ravvicinata dell'uso del termine libertà di cui egli ha largamente abusato nei lunghi anni del suo percorso politico. A costo di qualche semplificazione ci pare di potere anticipare che egli ha generalmente usato il termine libertà in senso negativo, ossia in costante contrapposizione al comunismo, non ha mai preso posizione contro il fascismo, al più ne ha ridicolizzato aspetti per nulla risibili, o ha pronunciato generiche condanne del totalitarismo. C'è stato addirittura qualche accenno a fare una festa della libertà nel giorno anniversario della caduta del muro di Berlino con una valenza specificamente anticomunista. Che egli in una notte possa avere fatto piazza pulita di un retroterra politico-culturale così saldamente introiettato sembra francamente fuori dalla realtà. Non è la prima volta nella storia della Repubblica che il potere politico cerca di appropriarsi del patrimonio della Resistenza per depotenziarne la memoria e per farsene strumento di legittimazione. In entrambi i casi era necessario dare una visione riduttiva della Resistenza. Ci provarono alla metà degli anni '50 i governi centristi quando privare la Resistenza dei suoi veri caratteri, compresa la spinta decisiva data alla rottura della continuità istituzionale che rese possibile l'instaurazione della repubblica e l'elaborazione della Costituzione, significava privare di legittimazione ogni espressione popolare che tendesse a forzare l'allargamento dello spazio della politica fuoriuscendo dal monopolio dei partiti. L'operazione Berlusconi non è una banale riverniciatura verbale di un evento così profondamente inciso nella memoria degli italiani; se il 25 aprile fino ad oggi ha rappresentato un discrimine tra due parti degli italiani è perché la sedicente riconciliazione, così tenacemente perseguita dagli eredi della Repubblica di Salò sin dai tempi di Almirante, doveva servire a oscurare e a neutralizzare l'origine della Repubblica in uno scontro senza quartiere di carattere ideale, politico, e sociale, sui valori fondativi che sarebbero stati consacrati nella Costituzione.
Con l'operazione del 25
aprile il presidente del consiglio ha voluto completare l'occupazione del potere,
tentando questa volta di incidere in maniera dirompente nella memoria degli
italiani. L'inversione semantica implicita nell'uso delle parole mira a
provocare la rottura di una memoria collettiva che ha espresso il vero collante
dell'opinione pubblica, al di là di ideologie e appartenenze diverse, intorno ai
valori della guerra di liberazione e della Costituzione. Una memoria forte
che con questa rottura si mira a sostituire con una memoria scolorita, frutto di
una confusione di valori e di comportamenti, in cui le distinzioni nette si
perdono per ritrovarsi tutti italiani senza qualità, un materiale plasmabile a
uso e consumo di un capo sapiente manipolatore, che sa dispensare a destra e a
sinistra le giuste dosi di patriottismo.
E in questo esito, e non già nel superamento dei conflitti, sta anche il
significato del prospettato ritiro del decreto legge sull'Ordine del tricolore:
dal momento che ormai la confusione dei valori, e non solo delle lingue, è
la realtà prodotta dal revisionismo di stato del presidente del consiglio, che
senso avrebbe sottolineare dettagli che riaccenderebbero le vecchie divisioni?
Una storia della quale nessuno a sinistra dovrebbe rallegrarsi, ma sulla quale
tutti dovrebbero impegnarsi a riflettere come e perché siamo arrivati a questo
punto.
Enzo Collotti Il manifesto 29 /04 /09