La religione, una bussola per la società inquieta
Quattro anni dopo, il Dio degli italiani sembra meno "relativo". È ciò che suggerisce l'indagine sul rapporto fra gli italiani e la religione, condotta da Demos-Eurisko, sulla traccia di un sondaggio realizzato nel 2003. Le persone disposte a considerare le differenze religiose come espressioni diverse di una medesima fede, infatti, oggi sono il 58%. La maggioranza. Ma quasi 10 punti percentuali in meno rispetto al 2003. Parallelamente, è cresciuta la quota di quanti affermano la verità "assoluta" del loro credo religioso.
Dal 16% al 23% della popolazione. Rispetto a qualche anno fa, dirsi cattolici, oggi, è quindi motivo di distinzione. D'altronde, è ciò che si era proposto Benedetto XVI, nel momento d'avvio del suo pontificato. "Sfidare" il relativismo di questa società secolarizzata, in cui la religione, in particolare quella cristiana, non è più in grado di "fare" la differenza.
Oggi qualcosa è cambiato. Lo si coglie nell'etica sociale e nei valori personali. Come dimostra il ridimensionamento sensibile della tolleranza verso una serie di comportamenti relativi alla vita, alla famiglia, alla sessualità. Nel caso del "divorzio": la quota di quanti lo considerano "moralmente accettabile" scende dal 62%, nel 2003, al 55%, oggi. La convivenza fra due persone - uomo e donna - non sposate: approvata dal 79% delle persone, 4 anni fa, è scesa al 69%. Perde dieci punti percentuali anche l'indulgenza verso il "sesso fra uomo e donna non sposati" (il 67%, oggi). Mentre l'ammissibilità morale dell'aborto è riconosciuta dal 23% degli italiani; era il 30%, quattro anni fa. Infine, l'omosessualità è ritenuta moralmente lecita dal 40% delle persone. Una minoranza. Si tratta di atteggiamenti che riflettono le indicazioni etiche della Chiesa. Come avviene, in modo particolarmente esplicito ed evidente, per la famiglia. Che, per la maggior parte degli italiani, coincide con l'unione fra due persone, di genere diverso, istituzionalizzata dal matrimonio.
Gli italiani, quindi, dimostrano maggiore ascolto e maggiore attenzione verso le indicazioni della Chiesa. Anche se ciò non riflette una parallela crescita della religiosità in Italia. L'Italia, infatti, continua ad essere un Paese nel quale "non ci si può non dire cristiani". In particolare (quasi 9 italiani su 10), "cattolici". Ma la partecipazione ai riti e la frequenza sacramentale riguardano una componente molto più ridotta. Circa uno su quattro (a parole. Nella realtà sono di meno).
Gli italiani, quindi, sono cattolici, ma senza troppo impegno. Senza vocazione (i seminari sono sempre più vuoti). Continuano, però, ad aderire in massa alla religione perché la ritengono un cemento sociale. Ma anche una bussola, che dà orientamento in una società disorientata. Un'ancora, che tiene saldo il legame con la tradizione comune. In forma quasi ereditaria. Tanto che un italiano su due, per spiegare la propria "fede", chiama in causa il ruolo della famiglia. Mentre quasi nove italiani su dieci ritengono importante trasmettere ai figli una educazione cattolica (e sette, fra chi non va mai a messa). Anche le opinioni verso legislazione sulle unioni di fatto riflettono questo clima. Certo: la quota degli italiani favorevoli ai DICO supera in misura consistente quella dei contrari: 50% a 40%. Tuttavia, il consenso verso la legge, negli ultimi anni, è calato di oltre 10 punti percentuali. Difficile spiegare questa tendenza solo con il passaggio dai Pacs ai Dico. È più probabile, invece, che il dibattito politico e le posizioni della Chiesa abbiano fatto percepire questi progetti come "minacce" all'istituto familiare. Al fondamento della coesione sociale. Anzi: della società, tout-court.
Questa Chiesa esigente, impegnata a marcare i confini del bene e del male, dice spesso cose che alla gente appaiono "come un comando ricevuto dall'alto, al quale bisogna obbedire perché si è comandati", per citare le parole del cardinale Carlo Maria Martini. Gli ammonimenti reiterati della gerarchia cattolica, tuttavia, riscuotono attenzione non solo fra i cattolici, più o meno praticanti, ma anche fra i non credenti. Perché toccano questioni legate all'etica: centrali, per la società. E perché, comunque, rispondono all'inquietudine diffusa di fronte ai cambiamenti che investono la vita e l'integrazione sociale. In primo luogo, la famiglia.
Peraltro, nella sfera privata e nella vita quotidiana, gli italiani continuano a concepire l'insegnamento religioso come un prontuario utile e duttile. Che ciascuno interpreta a modo suo. Secondo coscienza. E necessità. Di fronte alla sofferenza individuale, quando è ritenuta senza speranza, prevale la "pietà", che induce a riconoscere il diritto della persona a decidere. Se e quando morire. A dispetto dei precetti e dei proclami della Chiesa. Solo l'8% - sì: l'8%! - considera giusto che la Chiesa abbia negato i funerali religiosi a Welby. Appaiono poco condivisi anche i reiterati interventi della gerarchia ecclesiastica, di papa Ratzinger (e, fino a ieri, di Ruini) diretti alla politica e ai politici. La grande maggioranza degli italiani (60%) non condivide che la Chiesa "indichi ai parlamentari cattolici di votare contro i Dico". E una percentuale di persone ancora più ampia (il 74%, il 63% anche fra i cattolici praticanti), ritiene che in Parlamento, sui Dico, i politici cattolici debbano votare "liberamente secondo coscienza".
La Chiesa del nostro tempo, con le sue prescrizioni e i suoi ammonimenti, fra gli italiani suscita considerazione ma anche distacco. Come mostra il diverso sentimento suscitato da questo Pontefice, rispetto a quello che l'ha preceduto. Verso Benedetto XVI, infatti, dichiara di avere fiducia il 54% della popolazione. Venticinque punti percentuali meno di Wojtyla, quattro anni fa. Contribuisce, sicuramente, a questo risultato, la diversità di linguaggio, ma anche del ruolo interpretato, dai due pontefici. Il pastore, da un lato, il teologo, dall'altro. Ma conta anche la scelta, programmatica, di questo Papa, che esibisce il "distintivo cristiano". "Divide" il giusto dall'ingiusto, in nome della fede. E interviene, sulla realtà italiana, molto più di Wojtyla. Per questo, mai come in questa fase, dall'epoca della prima Repubblica, le relazioni fra religione e politica sono apparse tanto strette e conflittuali. Il fatto è che i temi posti dalla Chiesa sono centrali, per l'agenda politica. E gli attori politici stessi se ne servono, in questa fase confusa, per acquisire identità, conquistare consensi, costruire alleanze. Il "bipolarismo politico" rischia, così, di tradursi in "bipolarismo etico", come ha scritto di recente Luigi Bobba, parlamentare cattolico della Margherita ("Il posto dei cattolici", Einaudi). Non a caso, oggi, la Chiesa appare, a un quarto della popolazione, "vicina al centrodestra". Quasi nessuno, invece, la considera "amica" del centrosinistra. E solo una minoranza dei cattolici praticanti, d'altronde, dichiara che oggi voterebbe per l'Unione.
Anche questo è un segno dei tempi nuovi. Nella storia repubblicana, fino ad oggi, la Chiesa non era mai apparsa "di parte". Fra destra e sinistra, stava al centro. Nei momenti migliori: in alto.
ILVO DIAMANTI la Repubblica, 18.03.2007