La regressione culturale


L'Europa assolve il governo italiano perché fortunatamente non ha fatto quel che in ripetute
dichiarazioni pubbliche il suo ministro degli Interni si era riproposto di fare: la raccolta
generalizzata delle impronte digitali di tutti gli abitanti dei campi nomadi, compresi i bambini. La
lettura del rapporto inviato il 1° agosto da Roma a Bruxelles ha dato modo di verificare le modalità
del censimento nei campi nomadi e – si badi bene – «di correggere tutte le misure che potevano
dare luogo a contestazioni». Limitando «solo a casi estremi» il rilievo dei dati dattiloscopici dei
bambini, quando siano «strettamente necessari e come ultima possibilità di identificazione».
L'Italia evita così il disonore di un richiamo comunitario alle più elementari regole di civiltà, e non
possiamo che gioirne. Senza dimenticare però l'insistenza con cui Roberto Maroni, fra giugno e
luglio, aveva più volte sottolineato la necessità di prendere le impronte dei bambini rom. Quando il
suo annuncio sollevò le prime contestazioni, il ministro rincarò la dose: lo facciamo per il loro bene,
solo così li sottrarremo allo sfruttamento dei genitori criminali. Infine, dopo un voto del Parlamento
europeo e le perplessità manifestate dagli stessi prefetti incaricati di applicare il provvedimento, la
raccolta delle impronte è stata derubricata a extrema ratio. Ma silenziosamente, alla chetichella,
lasciando che fra i cittadini esasperati continuasse a circolare la certezza di un governo che non si
lascia commuovere da quelle manine, viste troppe volte frugare nelle tasche e nelle borse dei
malcapitati.
La genericità con cui il censimento e la nomina dei Commissari prefettizi è stata riferita a non
meglio precisati "campi nomadi", ha consentito di aggirare l'accusa di discriminazione su base
etnica o religiosa. E nel frattempo gli altri ministri del governo Berlusconi, seguiti dai sindaci più
fantasiosi, sono subentrati con una raffica di ulteriori emergenze, tutte da affrontare con la divisa e
tutte ispirate al medesimo principio: abbiamo vinto nettamente le elezioni e dunque procediamo al
ripristino del principio di autorità. Dopo i rom viene il turno dei clandestini, dei fannulloni, dei
cattivi in condotta. E siccome gli annunci di tolleranza zero si nutrono dell'innovazione linguistica,
diventa importante anche cambiare il nome alle cose: i Centri di permanenza temporanea diventano
Centri di identificazione e espulsione, così come i poveri amministratori locali deprivati dell'Ici
potranno consolarsi fregiandosi di una simbolica stella da sceriffo.

Era prevedibile che l'opinione pubblica manifestasse forte sintonia – finalmente! – con l'annuncio
della fine del lassismo. Pur senza illusioni sul ripristino della sicurezza pubblica: intanto
accontentiamoci che le autorità politiche indichino per nome e cognome le categorie colpevoli,
ponendo fine all'indulgenza. A cosa serve lo Stato se non, innanzitutto, a sorvegliare e punire?
L'integrazione, il recupero, l'assistenza, sono lussi che possono permettersi solo i privilegiati. Le
culture solidariste sono ferrivecchi destinati alla discarica, insieme alla sinistra.

Per questo il presidente della Camera viene trattato come un guastafeste quando conferma il suo
orientamento favorevole a riconoscere il diritto di voto amministrativo agli immigrati residenti da
un congruo numero di anni sul territorio nazionale. I suoi stessi compagni di partito hanno liquidato
con malcelato fastidio come "opinione personale" la sua apertura alla proposta di Walter Veltroni.
Ma come? Proprio ora che otteniamo il via libera pure dalla Commissione europea, tu vieni a
romperci con i diritti degli immigrati (vincolati ai doveri, ça va sans dire)? Prima ancora di
Berlusconi e Maroni è il coordinatore di An, Ignazio La Russa, a precisare che «per noi la priorità
resta la lotta all'immigrazione clandestina». Come se fosse plausibile un contrasto efficace dei
residenti senza documenti validi che non contempli certezze di diritti riconosciuti: ricongiungimenti
familiari, permessi di soggiorno validi anche per chi ha provvisoriamente perduto il lavoro, voce in
capitolo sulle scelte amministrative nel luogo in cui si risiede da anni, procedure codificate di
accesso alla cittadinanza italiana, luoghi di culto dignitosi e adeguati.
Tutto ciò, e non solo il diritto di voto alle elezioni amministrative, resta fuori da un programma di
governo che viceversa ritiene di trarre legittimità da una cultura di sottomissione degli immigrati
alla comunità nazionale. Una comunità che non può fare a meno della loro manodopera ma che al
tempo stesso si dichiara satura e priva di risorse sufficienti alla loro graduale integrazione.
L'Italia cristiana che ritiene di avere già fatto troppo nel campo dell'accoglienza, incapace di
commuoversi davanti agli annegati e infastidita da chi nomade non lo è certo per vocazione, trova
nei suoi governanti – tornati detentori dell'autorità – gli inconsapevoli fautori di un pensiero antico.
Basta leggere "La pietà e la forca. Storia della miseria e della carità in Europa", del compianto
Bronislaw Geremek (Laterza), per notare il recupero in atto di certe dottrine medievali: distinguere i
"poveri vergognosi", caduti in disgrazia nell'ambito della nostra comunità e dunque meritevoli di
pubblica compassione, dai forestieri vagabondi e parassiti, indegni di ricovero e elemosina, tanto
meno di diritti.
Rischiamo una regressione culturale da cui non ci salverà la benevolenza dell'Ue. Perché
l'ingiustizia nei confronti dei più deboli prima o poi genera conflitti, e allora le aspettative suscitate
da un governo miope moltiplicheranno il rancore sociale.

Gad Lerner     la Repubblica 5 settembre 2008