La preghiera del cardinale e quella di un laico

Sento viva gratitudine per il cardinale Carlo Maria Martini, per i suoi pensieri, per l'esempio che dà
ed anche per l'amicizia che mi ha dimostrato. Infine per l'ultimo suo libro, «Meditazioni sulla
preghiera»
che tra pochi giorni sarà nelle librerie e di cui l'editore Mondadori ci ha autorizzato a
pubblicare un'anticipazione, uscita ieri sul nostro giornale.
Stavo cercando un argomento del quale scrivere per i miei lettori della domenica e i pensieri mi si
arruffavano mentre mi cresceva dentro un forte disagio. Il caso Marrazzo? L'omicidio dello
sventurato Stefano Cucchi, ucciso a bastonate mentre era affidato ai carabinieri e alla polizia
penitenziaria? Lo spettro della disoccupazione che avanza in Europa e nel mondo? La possibilità
che D'Alema sia nominato ministro degli Esteri dell'Unione europea e Tremonti presidente
dell'Eurogruppo oppure che entrambi restino dove sono? Infine lo stato miserevole della seconda
Repubblica, avviata ormai verso un'agonia dalla quale difficilmente potrà salvarsi?
Mi sentivo stanco di visitare e rivisitare problemi importanti ma ripetitivi, che per di più dimostrano
un tale stato di degradazione da esser diventati ripugnanti per ragioni estetiche prima che ancora
morali e politiche.
Sicché mi sono assai confortato leggendo la prosa del cardinale. Ho pensato di
cogliere l'occasione che il suo scritto mi offriva e intervenire anch'io sullo stesso argomento.
Penso che i miei lettori ne saranno contenti.

Il tema del cardinale riguarda la preghiera dei vecchi. Detto in altro modo – e lui stesso ne fa
menzione – si tratta d'una meditazione sulla morte da parte di chi, pur in buona salute, la vede
approssimarsi incalzata dal calendario.
Martini è profondamente religioso, ad un punto tale da potere e volere colloquiare anche con i non
credenti e mettere in comune esperienze così disparate. Io sono per l'appunto uno di quelli e
meditare assieme a lui mi ha dato grandissima pace tutte le volte che tra noi è accaduto. Gli anni
continuano a passare e l'esperienza di quei pensieri aumenta. Ci si sente come sentinelle avanzate su
un terreno incognito. Si assiste, sempre più dolenti e partecipi, alla scomparsa di tanti amici. Ci si
allontana dal mondo e lo si vede più distintamente: la vista migliora con la lontananza; lo diceva
Goethe e lo disse prima di lui Montaigne.

Perciò può essere utile a noi stessi e a tutte le persone consapevoli meditare insieme su un tema così
presente alla coscienza. La morte, diceva Montaigne con il suo sobrio linguaggio, è il fatto più
rimarchevole della nostra vita. Bisogna pregare. Bisogna pensare.

Il cardinale cita Qoelet in uno splendido suo passo pieno di sapienza e di bellezza poetica. Io citerò
ancora l'autore degli «Essais» quando diceva che bisogna portare il pensiero della morte come i
signori dell'epoca sua portavano il falcone sulla spalla per abituare se stessi e l'uccello cacciatore a
vivere insieme e prender dimestichezza l'uno dell'altro.

Chi non crede in un altro mondo sa che in quel certo momento tutto si concluderà; non teme
l'inferno e non spera in un paradiso. Non si aspetta premi né castighi. La preghiera non saprebbe a
chi rivolgerla. Può solo augurarsi d'esser ricordato da chi lo ha amato: una sopravvivenza breve, che
avrà se se lo sarà meritato.
Sa anche, chi non crede, che la vita è priva di senso se il senso consiste nell'avere un fine che
sorpassa il nostro transito terreno. E dunque: una vita che non ha ulteriore sopravvivenza e
naturalmente senza senso alcuno perché capricciosamente finisce lasciando una traccia che si
cancellerà nel giro di pochi mesi o di qualche anno in memorie altrimenti affaccendate: ebbene una
vita così desertificata di infinità dovrebbe essere disperata nel veder avanzare la Donna oscura che
verrà a prendersela.
Può esser serena, pacificata, confortata, una vita priva di fede? Avrà avuto un senso? Quale?

* * *
«Laudato si' mi Signore / per sora nostra Morte corporale» scrisse Francesco nel suo Cantico.
Socrate, mentre sentiva che il gelo della cicuta gli stava salendo dalle gambe al cuore, disse ai suoi
allievi di sacrificare un gallo ad Esculapio perché così voleva il rito, e si coprì la testa con un lembo
del mantello. Pascal morì sognando d'essere in comune con i poveri e i derelitti. Rilke, in una
pagina terribilmente splendida dei suoi «Quaderni» racconta la morte di suo nonno, il Ciambellano.
La Morte gridò per otto settimane dentro quel corpo, ma non era lui che gridava, era la Morte finché
non uscì fuori da lui. Benedetto Croce morì leggendo e leggeva sapendo che Lei stava arrivando.
Si può anche esser disperati con la fede nel cuore e non esserlo senza alcuna fede, con il falcone
sulla spalla che ti è diventato amico.

* * *
Io sento da tempo che noi, come tutte le specie e gli individui viventi che le compongono, siamo
forme che la natura incessantemente crea e disfa per far posto ad altre. Senza alcun disegno che non
sia la vita.

È legge di ogni forma di realizzare al massimo le capacità di cui dispone. Le forme viventi non sono
mai statiche ma dinamiche e ciò è vero perfino nelle forme apparentemente non viventi, è vero per gli atomi e per le particelle elementari della meccanica quantistica. È vero per ogni energia perché  ogni energia è dinamica. Non si tratta di fede ma di scienza sperimentale.
Il senso sta in questo, sta in un eterno divenire. Ogni forma ha la propria legge e diviene secondo
quella legge. Noi, nella nostra forma umana, siamo animati dal sentimento dell'amore, dal desiderio
del potere e dalla coscienza morale. Le nostre vite individuali combinano come possono e sanno
questi elementi e questo è il senso del nostro vissuto, queste sono le stelle che orientano il nostro
viaggio.
Non dico viaggio terreno ma soltanto viaggio perché non ne conosciamo altri. Possiamo
certamente immaginarli se ci consola immaginarli.

* * *
La vecchiaia restringe la nostra vitalità, limita le capacità del corpo e concentra quelle delle mente.
In alcuni il desiderio del potere soverchia gli altri. È patetico vedere come alcuni vecchi restino
aggrappati al potere, la loro zattera di salvataggio che non li porterà ad alcuna salvezza, la loro
rabbia nel vederselo strappato brano a brano, la solitudine del loro io denudato giorno per giorno
dagli orpelli dei quali l'avevano rivestito.

Altri si effondono nell'amore. Non dico nell'erotismo, dico amore. Amore per gli altri e per quelli a
loro più prossimi, quelli dai quali hanno ricevuto amore e ai quali l'hanno restituito.
Quando questo avviene, l'io non è solo, non è denudato, non è disperato, anzi è più ampio e più
ricco. Non ha nessun bisogno di chiamarsi e di sentirsi io ma si sente noi e quella è la sua ricchezz
a.

Oggi è il giorno di tutti i santi, ma non ci sono santi laici, ci sono soltanto anime amorose che
lasciano lungo la strada il pomposo mantello dell'egoismo e indossano quello della compassione
con il quale ricoprono sé e gli altri.

Lei, carissimo cardinale Martini, ha un amplissimo mantello di compassione, di passione per gli
altri. Col suo mantello ricopre anche me talvolta come il mio può ricoprire anche lei. Per questo la Nera Signora non ci spaventa.

È per questo sia lei che io sentiamo nel cuore il messaggio che incita
all'amore del prossimo. A lei lo invia il suo Dio e il Cristo che si è incarnato; a me lo manda Gesù,
nato a Nazareth o non importa dove, uomo tra gli uomini, nel quale l'amore prevalse sul potere.

Eugenio Scalfari       la Repubblica  1° novembre 2009