La politica dell’odio
Tutti lì, nel
centrodestra, ad affannarsi e ad arrabattarsi per spiegare che «no, non si
tratta di razzismo», che «l’Italia non è un Paese razzista» e che, infine, non
si deve definire come intolleranza etnica quello che è nient’altro che un
episodio sgradevole (o, nel caso peggiore, criminale). Sullo sfondo, sottile,
sottilissima, eppure tanto insidiosa da rischiare di penetrare nel senso comune,
una interpretazione che, comunque la si voglia imbellettare, suona così: alla
fin fine, se la sono cercata. Attenzione: se considerate puntualmente quest’ultima
affermazione, al di là della sua formulazione triviale, vi accorgerete che essa
sorregge le impalcature teoriche, proposte come complesse e responsabili, di
gran parte delle politiche anti-immigrazione.
Queste ultime, ma anche le manifestazioni di intolleranza e di aggressività
nelle relazioni tra italiani e stranieri, vengono fatte risalire pressoché
esclusivamente a una causa: il numero eccessivo di immigrati presenti nel
territorio nazionale. La riduzione di tale numero, comunque ottenuta, dovrebbe
determinare l’effetto di contenere la xenofobia e le sue manifestazioni
violente. Insomma, basta espellerne e respingerne tanti e ci sarà meno casino (e
più decoro urbano, che non guasta mai). In una mossa sola, oplà, la vittima
diventa responsabile della propria vittimizzazione: chi è causa del suo mal
pianga se stesso. (Così come se tu, invece di voler fare a tutti i costi il
proletario in un cantiere edile, avessi ascoltato i consigli di papà e operassi
in Borsa: oggi non correresti il rischio di precipitare da un ponteggio
oscillante nel vuoto).
Ripeto:
non si tratta solo della reazione superficiale e, tutto sommato, difensiva e
istintiva di un soggetto debole cui è stata “imposta” la fatica di una
convivenza non prevista e non voluta con altri soggetti deboli, che vengono
vissuti come totalmente estranei e potenzialmente, nemici. Quella stessa lettura
alimenta molta pubblicistica e gran parte del discorso pubblico del ceto di
governo. Unitamente a questo, c’è quell’accalorato agitarsi per negare che
«l’Italia sia un Paese razzista». Ma chi mai l’ha detto? O meglio: quale scemo
potrebbe mai dirlo? Affermare che un paese o una collettività nazionale siano
“razzisti”, equivale propriamente ad adottare il medesimo paradigma razzista,
fondato appunto sull’attribuzione a una comunità dei connotati o dei misfatti di
un singolo componente (o di più componenti) di quella medesima comunità. Dunque,
il problema è palesemente un altro. Ed è quello di riconoscere che, in una
società complicata ed inquieta come la nostra, non è “il razzismo” (categoria
che rischia l’astrattezza) che va enfatizzato, ma è la diffusione crescente di
“atti di razzismo” che va considerata come una minaccia e risolutamente
contrastata.
Il fatto che il centrodestra neghi questa evidenza o voglia attribuirle un segno
neutrale («sono semplici atti di teppismo») è due volte inquietante. In primo
luogo, perché rivela una vera e propria procedura di rimozione (in senso
squisitamente psicanalitico), che conferma l’incapacità di riflettere sul
problema e, in particolare, su come quel problema riguardi il “cuore profondo”
del centrodestra stesso. In altre parole, spaventato dall’idea di scoprire in sé
pulsioni inequivocabilmente razziste, il centrodestra nega quelle pulsioni
censurandole, indirizzandole altrove, mutando il loro nome. Insomma, come ha
ricordato opportunamente Gad Lerner nel corso della trasmissione televisiva Anno
Zero, se in campagna elettorale esponenti politici urlano: cacceremo i
clandestini a calci nel culo, è irresponsabile pensare che non si producano
effetti pesanti sugli orientamenti individuali e collettivi. La rimozione del
razzismo come problema esalta l’aggressività latente, rende patologici i
sentimenti di frustrazione e la volontà di rivalsa, indirizza contro il capro
espiatorio più a portata di mano la condizione diffusa di stress e di ansia.
Quelli del centrodestra più fieri di aver frequentato il liceo classico
ricordano, con modi petulanti, che xenofobia non significa odio razziale, bensì
paura dello straniero. Ma è proprio qui il punto. Quella paura (motivata,
immotivata o solo parzialmente motivata) si manifesta come umore e come
sentimento: dopo di che la si può blandire o razionalizzare, galvanizzare o
mediare, indirizzare politicamente o contenere intelligentemente.
In Italia, una parte significativa del ceto di governo (della Lega, di An, di
Forza Italia) ha deciso di farsi “imprenditore politico” di quella paura. Ovvero
di trattarla politicamente, di trasferirla nella sfera pubblico-istituzionale,
di scagliarla contro gli avversari. E qui arriviamo alla seconda ragione di
inquietudine.
Considerate quei disgraziati che hanno aggredito il cittadino cinese a Tor Bella
Monaca. Si tratta di minorenni alcuni dei quali già responsabili di episodi
analoghi. Li si deve giudicare e punire secondo quanto previsto dalla legge. Ma
il farlo (si spera con tempestività) non deve impedirci di provare a “capirli”.
Capirli non significa essere indulgenti: significa, piuttosto, indagare le cause
che hanno indotto degli adolescenti a trasformarsi in criminali. Tra tali cause
c’è quel fattore incentivante di cui già si è detto: se un leader politico o una
leader politica urlano nei comizi cacceremo i clandestini a calci nel culo,
perché mai, in presenza di determinate condizioni sociali e culturali, un
adolescente frustrato e smarrito non dovrebbe passare a vie di fatto? O forse ci
si aspetta che, prima di sferrare quei calci “nel culo” chieda alla sua vittima
se è regolare o irregolare, se è titolare o meno di permesso di soggiorno, se è
un rifugiato politico o un “clandestino”?
Qui si pone un problema di linguaggio: e di linguaggio del discorso pubblico. Il
termine “clandestino” è diventato merce corrente anche nel dibattito della
sinistra, ed è un termine due volte sbagliato. In primo luogo, perché è
improprio sotto il profilo giuridico: chi viola le norme su ingresso e
permanenza nel territorio italiano commette un illecito amministrativo - una
infrazione - e diventa irregolare; poi, perché quel termine è fortemente e
cupamente denotativo, richiamando una dimensione di illegalità e di tendenziale
criminalità, che risponde al vero solo per una quota minoritaria di stranieri
irregolari. Più in generale, quello del linguaggio è un vero campo di battaglia
tra discriminazione e integrazione, tra rifiuto e accoglienza. Si pensi a quando
Antonio Di Pietro, nel dirsi favorevole alla classificazione dell’immigrazione
irregolare come fattispecie penale, spiegò che in caso contrario «l’Italia
sarebbe diventata il vespasiano d’Europa». Non siamo in presenza solo di una
irresponsabile volgarità, che la dice lunga sulla moralità del difensore della
morale: si tratta di una formula propriamente razzistica nel suo assimilare gli
immigrati agli escrementi. Ma assai più grave, evidentemente, è l’uso
costante e massiccio di quel linguaggio da parte del centrodestra: e patetico il
suo tentativo di scindere completamente quel vocabolario razzistico dagli
effetti sociali che contribuisce a determinare. Tanto più che - ma qui non posso
soffermarmi - alle parole si accompagnano i fatti: decreti legge e delibere che
configurano qualcosa di molto simile alla “produzione di razzismo per via
istituzionale” (basti pensare a quell’aggravante costituita dalla condizione di
irregolarità, che discrimina tra “i cittadini di fronte alla legge” e penalizza
non una azione, ma una condizione). Infine, va ricordato che nel corso degli
ultimi dodici mesi è avvenuto qualcosa di terribile e tragico: oggi è possibile,
in spazi pubblici e in sedi di partito, urlare l’equazione romeni uguale
stupratori. È accaduto quasi senza che ce ne accorgessimo, ma la diffusione di
quell’infame equiparazione corrisponde a una crisi dei fondamenti culturali di
una società democratica e di uno stato di diritto. Certo, i minorenni di Tor
Bella Monaca vanno puniti, ma il conto non dovrà esser chiesto loro, se non per
quanto di stretta pertinenza e responsabilità. I “mandanti” sono altri e stanno
altrove.
Luigi Manconi l’Unità 4.10.08