La paura della fine
e il biotestamento
La battaglia sul testamento biologico è una prova imposta da una destra politica
che ha scelto di
governare col parente povero del terrore: la paura. Al terrore è
necessaria la forza; e oggi la forza
può essere usata vigliaccamente solo contro minoranze disgregate e indifese,
come immigrati e rom.
La paura è invece lo strumento adatto: è un sentimento che filtra e circola
impalpabile nella società
liquida dove sono venute meno le tradizionali forme associative e le solidarietà
di classe si sfaldano.
La paura della morte è il sentimento primario, dominante sull'intera famiglia
dei timori che dettano
comportamenti e regole sociali. Alcune di queste regole sono così radicate da
apparire naturali
mentre naturali non sono. Tali sono le norme sanitarie che nel mondo occidentale
- a differenza di
quelle vigenti nelle culture musulmane - impongono la distanza di almeno
ventiquattro ore tra
l'accertamento del decesso e la sepoltura e richiedono l'esposizione e la veglia
del defunto nella
camera mortuaria. Queste norme furono dettate nel '700 dal diffondersi di
una paura nuova, quella
della morte apparente che si sostituì allo spauracchio religioso della morte
improvvisa senza
confessione e sacramenti, senza il tempo di prepararsi all'ingresso nel mondo
dell'aldilà.
Oggi siamo al capitolo successivo di questa storia. Un capitolo dominato dagli
stessi incubi: nel
'700 si immaginò un collegamento tra il sepolcro e l'esterno con un campanello
per l'eventuale
risveglio del morto alla vita; oggi avremo forse bare dotate di telefoni
cellulari. Ma la paura
dominante è che qualcuno approfitti della nostra condizione di coma o di
malattia terminale per
tagliare gli ultimi fili, per recidere coi tubi dell'idratazione e
dell'alimentazione forzata ogni
speranza di risvegliarci vivi in questo mondo.
Se si riflette alla svolta culturale profonda di cui questi sentimenti sono
figli, fa una curiosa
impressione sentire il cardinal Bagnasco affermare solennemente che la vita -
questa qui, in questo
mondo - è un bene indisponibile. E tutto l'affaticarsi della Pontificia
Accademia della vita sembra
muoversi sotto un cielo diverso da quello dell'antico Regno dei Cieli e della
agostiniana Città di
Dio, un cielo da cui è scomparsa quella religione cristiana che una volta
considerava l'esistenza
umana come una favola breve e illusoria, una preparazione alla vita vera. Oggi
una Chiesa sconfitta
nel '700 dalla secolarizzazione di valori e comportamenti trova un'imprevista
occasione di alleanza
con la politica proprio nell'attaccamento alla vita, questa vita terrena, e nel
governo delle pulsioni
diffuse dalla paura di perderla.
Alleanza fragile e illusoria: come mostrano le divisioni e le incertezze che
frammentano anche gli
schieramenti parlamentari, il vero problema a cui si sta cercando di dare
risposta è quello di
conservare oltre ogni limite fisiologico tutti i diritti a disporre della nostra
esistenza come proprietà
individuale e inalienabile, impedendo a chiunque di disporne. Per questo
lo scoglio della legge che
si sta elaborando è costituito dalla questione se si debba imporre a medici e
parenti l'obbligo di
mantenere l'idratazione e la nutrizione forzata: uno scoglio reale, perché ogni
parlamentare deve
valutare personalmente che cosa lo spaventa di più, se la morte o
l'imprevedibile, inimmaginabile
sofferenza o indegnità di una forzata sopravvivenza del suo corpo attaccato a
tubi e oggetto di
manipolazioni.
Ma deve essere chiaro a tutti quanto sia pericolosa una politica che segua
l'impulso della paura. La
legge che si sta preparando è un atto di biopolitica, prefigura un ingresso del
potere politico nella
stanza del morente. Abbiamo visto una prova generale di quello che potrebbe
accadere a ciascuno di
noi: agli ispettori ministeriali spediti a violare la stanza della clinica «La
Quiete» di Udine sono
seguite inaudite accuse di assassinio, sequestro di cartelle cliniche, apertura
di procedimenti
giudiziari. Questi fatti non avrebbero mai dovuto verificarsi in un paese
civile. Ma ci sono stati: ed è
per questo che la legge sul fine vita, per quanto deprecabile, per quanto non
necessaria nel sistema
delle garanzie giuridiche teoricamente esistenti, è diventata oggi un passaggio
inevitabile.
La solitaria battaglia condotta per un tempo infinito da Beppino Englaro nel
labirinto delle leggi, in
difesa della dignità umana, del vincolo dell'amore paterno e del dovere di
protezione che lega padri
e figli, ha dimostrato che la saggia e decisiva norma della Costituzione non
bastava da sola a
tutelare il diritto di ognuno a disporre della propria vita, a porre un limite
all'accanimento
terapeutico. Ma se legge ha da esserci, bisogna che sia tale da ricondurre il
momento del fine vita
all'ambito suo proprio: quello in cui ciascuno decide - personalmente se può o
per il tramite di suoi
fiduciari - fino a che punto è disposto a tollerare interventi sul suo corpo;
quello in cui solo il
medico fedele al suo giuramento può accompagnare l'essere malato e sofferente
collaborando con
lui e coi familiari in scienza e coscienza. Ogni altro limite imposto per legge
sancirebbe la sconfitta
finale della battaglia civile che in nome della legge e dei diritti sanciti
dalla Costituzione è stata
condotta da Beppino Englaro. La prova di questa legge è dunque la prova
dell'esistenza o meno di
una opposizione degna di questo nome: una opposizione non necessariamente
disegnata dal confine
dei partiti e delle maggioranze politiche, fatta da parlamentari che si sentano
obbligati in coscienza
a difendere con la costituzione i diritti inalienabili di ogni essere umano -
dunque, anche i loro
diritti.
Adriano Prosperi la Repubblica 10 marzo 2009