La patria dell’oblio
Vorrei
tornare sulle parole di Piero Grasso a proposito di mafia e politica, dette il
26 maggio a Firenze davanti alle vittime della strage dei Georgofili.
L’intervista rilasciata a Francesco La Licata dal Procuratore nazionale
Antimafia chiarisce infatti alcuni punti essenziali, e pone quesiti alla classe
politica e a tutti noi. La domanda che formula, implicita ma ineludibile, è
questa: come funziona la memoria collettiva in Italia?
Come vengono sormontati i lutti, e vissuti i fatti tragici, i mancati
appuntamenti con la giustizia?
In questo giornale ho cercato prime risposte, evocando la richiesta, formulata
il 7-8-98, di archiviazione dell’indagine su Berlusconi e Dell’Utri per le
stragi a Roma, Firenze e Milano nel ’93-’94: richiesta firmata da Grasso assieme
a quattro magistrati, e accolta poi dal gip di Firenze. Nella richiesta era
chiaro il nesso fra Cosa nostra e il soggetto politico nato dopo Tangentopoli
(Forza Italia), ma mancavano prove di un’«intesa preliminare». Quell’atto mi
parve più esplicito di quanto detto dal procuratore il 26 maggio, e su tale
differenza mi sono interrogata. Ma l’interrogativo, più che Grasso, concerne in
realtà i politici, e tramite loro l’Italia intera: giornalisti, elettori,
ministri ed ex ministri di destra e sinistra.
Per chiarezza, vorremmo citare i principali passaggi della richiesta di
archiviazione e confrontarli con quello che Grasso afferma oggi. Nella richiesta
(da me impropriamente chiamata «verbale», domenica scorsa) è scritto:
«Molteplici (sono) gli elementi acquisiti univoci nella dimostrazione che tra
Cosa Nostra e il soggetto politico imprenditoriale intervennero, prima e in
vista delle consultazioni elettorali del marzo 1994, contatti riconducibili allo
schema contrattuale, appoggio elettorale-interventi sulla normativa di contrasto
della criminalità organizzata». E ancora: il rapporto tra i capimafia e gli
indagati (Berlusconi e Dell’Utri, citati come autore-1 e autore-2 e
rappresentanti il nuovo «soggetto politico imprenditoriale» in contatto con Cosa
nostra) «non ha mai cessato di dimensionarsi (almeno in parte) sulle esigenze di
Cosa nostra, vale a dire sulle esigenze di un’organizzazione criminale». Il
testo firmato da Grasso è inedito, ma gli argomenti che esso contiene appaiono
in documenti che la classe politica conosce bene: il decreto di archiviazione
dell’inchiesta di Firenze, e quello che archivia la successiva inchiesta di
Caltanissetta su Berlusconi, Dell’Utri e le stragi di Capaci e via D’Amelio
(3-5-02). Il testo è pubblicato da Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza in un
libro, «L’agenda nera», che uscirà il 10 giugno per Chiarelettere.
Ha ragione dunque il procuratore a dire che nella sostanza non c’è nulla di
nuovo in quello che ha ricordato giorni fa a Firenze («Cosa nostra ebbe in
subappalto una vera e propria strategia della tensione», per creare disordine e
dare «la possibilità a una entità esterna di proporsi come soluzione per poter
riprendere in pugno l’intera situazione economica, politica, sociale che veniva
dalle macerie di Tangentopoli. Certamente Cosa nostra, attraverso questo
programma di azioni criminali, che hanno cercato d’incidere gravemente e in
profondità sull’ordine pubblico, ha inteso agevolare l’avvento di nuove realtà
politiche che potessero poi esaudire le sue richieste»). Secondo alcuni
il procuratore avrebbe oggi alzato il tiro, ma non è vero: semmai dice meno
cose, su Forza Italia. Ed ecco la conclusione cui giunge nell’intervista:
«L’idea che io mi sono fatto di quel terribile momento storico del ‘92 e del
‘93, molto prima dello scorso 26 maggio, era rintracciabile in moltissimi
interventi pubblici, oltre che in tre libri pubblicati dal 2001 al 2009.
Ritenevo e ritengo ancora quella ricostruzione storica una sorta di patrimonio
della memoria collettiva definitivamente acquisito».
Proprio qui tuttavia è il punto che duole. L’osceno italiano di cui parla
spesso Roberto Scarpinato, procuratore generale di Caltanissetta, e cioè il
potere reale esercitato «fuori scena», di nascosto, esclude l’esistenza di un
«patrimonio della memoria collettiva definitivamente acquisito». A
differenza dell’America, o della Germania che di continuo rivanga il proprio
passato nazista, l’Italia non ha una memoria collettiva che archivi stabilmente
la verità e la renda a tutti visibile. Da noi la memoria storica si dissipa,
frantumando e seppellendo fatti, esperienze, sentenze. E di questo seppellimento
sono responsabili i politici, per primi.
Senza voler fare congetture, si può constatare che Grasso forse dice meno di
quel che sottoscrisse nel ‘98, anche se dice pur sempre molto. Sono i politici a
parlare più forte di quanto parlarono tra il ‘98 e oggi.
Sono i politici ad allarmarsi giustamente per le sue parole, a chiedere più
verità, come se non avessero già potuto allarmarsi in occasione dei tanti atti
giudiziari riguardanti quello che Grasso chiama «il nostro 11 Settembre: dall’Addaura,
a Capaci, a via D’Amelio, fino alle stragi di Roma, Firenze, Milano e a quella
mancata dello stadio Olimpico di Roma». Non sono i giudici ad aver dimenticato
le deposizioni di Gabriele Chelazzi, il pm fiorentino titolare dell’inchiesta
sui «mandanti esterni» delle stragi del ‘93, davanti alla commissione nazionale
Antimafia il 2-7-02. Nella lettera ritrovata dopo la sua morte, Chelazzi si
lamenta con i suoi uffici e scrive: «Mi chiamate alle riunioni solo per dare
conto di ciò che sto facendo, quasi che fosse un dibattito».
È così che la memoria fallisce. Che l’osceno resta fuori scena, ostacolato
solo dalle intercettazioni. Atti giudiziari e libri vengono sepolti nei
ricordi perché sono trasformati in opinioni, per definizione sempre opinabili.
Il vissuto viene trasferito nel mondo del dibattito e le sentenze diventano
congetture calunniose. È quello che permette a Giuliano Ferrara, sul Foglio
del 31 maggio, di squalificare le parole di Grasso definendole «ipotesi e
ragionamenti» dotati di «uno sfondo politico e nessun avallo giudiziario». Il
patrimonio della memoria collettiva, lungi dall’esser «definitivamente
acquisito», è permanentemente cestinato.
I politici partecipano allo svuotamento della memoria usandola quando
torna utile, gettandola quando non conviene più. Lo stesso allarme di oggi, non
è detto che durerà. È come se nella mente avessero non un patrimonio, ma un
palinsesto: un rotolo di carta su cui si scrive un testo, per poi raschiarlo via
e sostituirlo con un altro che lascia, del passato, flebilissime tracce.
L’intervista di Violante al Foglio, l’1 giugno, è significativa: in essa si
dichiara che è arrivato il momento di «capire senza rimestare», di «mettere
ordine» tra fatti forse non legati. Manca ogni polemica con il pesante attacco a
Grasso, sferrato il giorno prima dal quotidiano.
Dice Ferrara che «non si convive inerti con un’accusa di stragismo a chi
governa». Può darsi, ma l’Italia ha dimestichezze antiche con l’inerzia.
Se non le avesse, non dimenticherebbe sistematicamente i drammi vissuti, e
come ne è uscita. Non dimenticherebbe che del terrorismo si liberò grazie ai
pentiti. Che tanti crimini sono sventati grazie alle intercettazioni. Come ha
detto una volta Pietro Ichino a proposito dei ritardi della sinistra sul diritto
di lavoro, in Italia «si chiudono le questioni in un cassetto gettando la
chiave». È il vizio di tanti suoi responsabili (nella politica,
nell’informazione) pronti a convertirsi ripetutamente. Pronti al
trasformismo, a voltar gabbana. Chi non sta al gioco, chi nel
giornalismo ha memoria lunga e buoni archivi, viene considerato uno sbirro, o un
rimestatore, o, come Saviano, un idolo da azzittire e abbattere. Occorre una
politica più attiva e meno immemore, se davvero si vuole che i giudici non
esercitino quello che vien chiamato potere di supplenza
Barbara Spinelli La Stampa 6/6/2010