La nostra vergogna
La morte di un bambino di tre anni bruciato vivo in una baracca a due passi dal
centro di Roma è
una notizia sconvolgente.
È da tempo che accadono cose orrende. Ci furono i quattro bambini
morti nell'agosto 2008 a
Livorno, sotto un cavalcavia: Eva, 12 anni, Danchiu, 8 anni, Leonuca, 6 anni, e
Mengi, di 4 anni.
Eva morendo cercò di proteggere col suo corpo un fratellino. Questo fu il
racconto dei loro corpi,
simili ai calchi in gesso di Pompei. E il quattordicenne carbonizzato nel campo
nomadi di Rivarolo
nel marzo 2002. E l'altro quattordicenne, Marian Danilà, morto carbonizzato
nell'area ex Falck di
Milano nel settembre 2008. Allora don Massimo Capelli della Casa della Carità,
disse: «Ci sono
stati già quattro morti alla Falck, ma il Comune sa fare solo sgomberi».
Oggi i comuni continuano a fare e a minacciare sgomberi in
Italia. Ma c'è un momento in cui dallo
stillicidio delle cronache dell'orrore locale si passa alla corrente impetuosa
di un grande problema
collettivo che investe tutta la comunità internazionale, scuote le coscienze dei
singoli, assume le
dimensioni di un'urgenza assoluta davanti alla quale non ci si può più fingere
disattenti né
rimandare alle competenti autorità. Oggi forse quel momento è arrivato anche per
la questione degli
zingari: almeno lo speriamo. E' un fatto che negli ultimi giorni la questione
dei rom e dei sinti ha
conosciuto un salto di qualità. Per merito non italiano ma francese.
L'iniziativa di Sarkozy ha scosso
e diviso l'opinione pubblica e ha portato a una ferma presa di posizione della
Chiesa cattolica.
L'appello del Papa ha richiamato la Francia al dovere di
«saper accogliere le legittime diversità
umane». E monsignor Marchetto, segretario del Pontificio Consiglio per i
migranti, dice: «Quando
ci sono espulsioni, ci sono sofferenze... Si tratta di persone deboli e povere
che sono perseguitate,
che sono vittime anch'esse di un ‘olocausto' e vivono sempre fuggendo da chi dà
loro la caccia».
Nella dichiarazione di Marchetto la parola olocausto è tra virgolette. Ma è la
parola giusta: ci sono
testimoni che hanno vissuto la tragedia di allora e si ritrovano oggi davanti
alla stessa macchina di
odio. Valga l'esempio di Goffredo Bezzecchi, sopravvissuto alla deportazione di
allora per trovarsi
il 6 giugno 2008 nel campo rom di Rogoredo svegliato all'alba, messo in fila e
schedato per
l'operazione del censimento dei rom attuato dai superprefetti nominati dal
governo.
Per questo salutiamo l'appello del Papa come il segno che le
cose possono cambiare, che forse non è
troppo tardi perché ci sia un ritorno alla ragione. Ma quel segno non
basterà, dovrà essere ripetuto,
dovrà risuonare non solo in francese. Dovrà riguardare lo scenario
italiano e rispondere a quel
ministro che agli italiani ha promesso che sarà più duro di Sarkozy.
Dovrà dire con chiarezza ai
politici italiani che su questo punto si giocheranno l'appoggio della Chiesa. Lo
dovrà far capire a
quel presidente del Comitato Sicurezza del Comune di Roma che, dopo la morte del
piccolo rom, ha rilasciato questa incredibile dichiarazione:
«È necessario continuare sul fronte delle espulsioni e dei
rimpatri assistiti sull'esempio di quanto avviene in Francia».
Lo leggiamo con sensi di vergogna. Ci sentiamo corresponsabili di una
offesa che «spezza il corpo e
l'anima dei sommersi» e «risale come infamia sugli oppressori», come scrisse
Primo Levi. Se un
giorno il nostro paese sarà capace di ritrovare la via giusta, allora ci dovrà
essere un luogo e un rito
della memoria: e nel monumento della nostra vergogna, che immaginiamo come
la discesa nel buio
del monumento ai caduti americani del Vietnam, si dovranno leggere i nomi di
tanti zingari, tanti
bambini. Ma intanto, bisognerà cominciare a ripulire il linguaggio di
quei sindaci che promettono di
«bonificare» le città allontanando i nomadi: esseri umani come rifiuti da
trasportare altrove perché
non offendano la vista. Circola da tempo l'immagine del «troppo pieno»; per dire
che nel paese non
c'è posto per tutti. Metafora insensata in un paese che ha obbedito agli stimoli
dissennati del premier
e all'allentamento dei vincoli da parte di comuni coi bilanci in rosso e ha
costruito un'infinità di
case; case vuote, che nessuno compra. Ma quando prende piede la metafora
dell'intolleranza
spaziale siamo già entrati nell'antica rotaia maledetta del rapporto tra un
popolo e il suo territorio. Il
motto leghista «padroni a casa nostra» è il figlio smemorato dell'idea nazista
dello «spazio vitale».
Adriano Prosperi la Repubblica 28 agosto 2010