La nostra Italia razzista


Se mandarini e pomodori sono sporchi e invadenti
Rosarno, Obama e il piccolo paese di Tallulah: le discriminazioni razziali e il ruolo dell’informazione. L’intervento di Enrico Deaglio, oggi a Firenze


Questo mio intervento divaga tra il tempo e lo spazio, sul tema del razzismo e vi gira delle domande alle quali io sicuramente non so dare risposta. Per esempio: mi è venuto in mente che forse tra vent’anni venderemo i nostri mandarini, arance, pomodori avviluppate in quelle carte sottili che si usavano nell’Ottocento, con magnifici design grafici. Un uomo nero che raccoglie i rossi e succosi frutti della terra, lui nerboruto con un cappello di paglia, un pipa di legno in bocca e un gran sorriso bianco. E la scritta: made in Italy. Oppure andrà tutto diversamente e tra vent’anni avremo un sindaco Ahmed di Rosarno. Oppure tutte le culture agricole del sud Italia saranno abbandonate, perché quel modello economico – fare raccogliere i frutti dagli schiavi – non regge più.
Fantasie. Ma intanto mi accorgo di quanto noi conosciamo poco della nostra terra.

Proprio oggi, una onlus – la Da sud – presenta a Roma uno studio sulla violenza razziale a Rosario. Si scopre che lì, sempre con il beneplacito della ’ndrangheta cominciarono a sparare ai neri a partire dal 1990. Finora ne hanno uccisi una dozzina, e centinaia sono rimasti feriti. Tutti senza nome conosciuto. Ancora prima, nel 1986, mi ricordo che andai a Castelvolturno (un po’ più su di Rosarno, lì stanno sotto la camorra, a Rosarno sotto la ’ndrangheta) perché mi avevano raccontato che quella era una specie di territorio senza stato né legge e che sembrava di essere nel Mississippi con tutti quei neri (anzi, al tempo si diceva ancora negri) che lavoravano nei campi. Era proprio così e a me e al fotografo Maurizio Bezziccheri dell’Europeo capitò verso mezzanotte di sentire degli spari in campagna. Illuminammo con i fari la strada e c’era un africano rantolante con un grosso buco nel petto. Un altro era cadavere addossato a un muretto. Nessun quotidiano ne parlò e il nostro settimanale ci mise a pagina 98 (la buona notizia è che dieci anni dopo la procura di Santa Maria Capua a Vetere ci chiamò a testimoniare perché il ferito, che noi avevamo dato per morto, era sopravvissuto).

Noi italiani non abbiamo un razzismo di vecchia data. Le leggi razziali sono appena del 1938. Noi siamo innocenti per natura, il nostro impero è durato meno di dieci anni. Trent’anni fa in Italia, praticamente non c’erano immigrati. E quindi non sappiamo bene cosa fare, anche se oggi circa 4 milioni di immigrati ci sbrigano tutte le faccende. Ho letto che nel giro di trent’anni, se l’Italia vorrà conservare la sua popolazione di 60 milioni di abitanti, sarà necessaria l’immigrazione di almeno dieci milioni di persone. Ma sono pochi, anzi a me sembra nessuno, che dicano: diamo subito il diritto di voto, ovvero il primo dei diritti civili. Non ci sono neri nel nostro parlamento, tranne uno. Un nero italiano non riesce a entrare nella nazionale di calcio. Ogni partito politico teme che sollevare questi temi significhi andare incontro a un tracollo elettorale.

Ho passato l’estate scorsa tra il Mississippi e la Louisiana, girando. Lì come sapete, il razzismo è nato, lì si è combattuta una guerra civile da mezzo milione di morti, lì sono nati il Ku Klux Klan e lì milioni di africani sono stati deportati e resi schiavi per raccogliere il cotone che serve in fondo a costruire le camicie che portiamo e le lenzuola in cui dormiamo. Poi, un secolo dopo la guerra, vennero le lotte per i diritti civili e adesso c’è Obama presidente. Volevo vedere che effetto
faceva, se si vedevano i segni della vittoria. Non ne ho visti. Anche l’andamento del voto da quelle parti è poco conosciuto: quegli stati, a stragrande maggioranza nera, hanno votato Mac Cain. Obama non ha neanche fatto un salto per un comizio, li aveva dati per persi. Non solo, ma non ha conquistato un solo voto nell’elettorato bianco indeciso. In quei posti ci sono persone che mettono un adesivo sulla macchina: «Se avessi saputo che sarebbe successo tutto questo casino, il cotone me lo sarei raccolto da solo», ma non c’è nessuno che scriva «alla Casa Bianca c’è uno dei nostri». Le minacce di morte al presidente, da quelle parti, sono cresciute del 400%; il cotone è raccolto con giganteschi macchinari che praticamente non necessitano manodopera, la disoccupazione è altissima e tra i neri il diabete è tra le prime cause di morte.

L’unico ritratto di Obama l’ho visto in un ufficietto, in un piccolo museo di lamiera che ricorda Emmett Till. Emmett Till era un ragazzo nero di Chicago, di 14 anni che passava l’estate del 1963 dallo zio in Mississippi. Dicono che abbia fatto un commento galante alla cassiera bianca di una stamberga, pagando un chewing gum. Il marito lo rapisce, l’ammazza e lo butta nel fiume legato a una grossa pietra. Ma il cadavere sfigurato viene ripescato e riconosciuto per un anello che porta al dito: uno dei pochi effetti personali del padre Louis Till, morto in guerra in Italia. La madre Mamie espone il cadavere a Chicago, il martirio di Emmett Till diventa noto in tutto il mondo ed è considerato l’inizio della lotta per i diritti civili. Ma c’è un dettaglio in questa storia, che riguarda la Toscana. Louis Till, soldato semplice dell’esercito americano era morto impiccato, accusato di omicidio e stupro. Il tutto era avvenuto nell’enorme campo di prigionia di Metato, vicino a Pisa. Ezra Pound, anche lui detenuto, lo cita in uno dei suoi Cantos. Gli avvocati degli assassini lo citarono al processo, come dire tale il padre tale il figlio.
E l’ultima cosa. Ero ospite nel piccolo paese di Tallulah, cotone e miseria dappertutto. Una signora nell’ufficio del turismo mi fece conoscere la storia di cinque italiani linciati nel 1899, si chiamavano Defatta, venivano da Cefalù, in Sicilia. Avevano avviato un buon mercato di frutti: pomodori, mandarini, arance e davano fastidio: invadenti, sporchi e mafiosi. Quando tornai a casa dai miei ospiti e raccontai la mia scoperta, li vidi veramente costernati. «Ah, te l’hanno detto!» e ho scoperto che le signore di Tallulah, in un circolo parlando dell’ospite italiano, si erano augurate che nessuno me lo dicesse. E forse avevano ragione loro.
Questo per dire che l’informazione serve, ma che non bisogna farsi troppe illusioni. E che alla fine vince chi ha la forza e la pazienza di raccontare il passato.

Enrico Deaglio     l’Unitŕ 19.2.10