LA MUTAZIONE ANTROPOLOGICA DELL’IRPINIA

 

Ormai non c’è più alcuna differenza tra gli stili di vita e di comportamento, totalmente consumistici, degli individui che vivono in un piccolo paese delle zone interne dell’Italia meridionale, e gli abitanti di un’estesa metropoli come Roma, Milano, Torino, eccetera. Invece, 25/30 anni fa il divario era molto maggiore, direi quasi abissale; oggi si è ridotto in modo colossale livellandosi verso il basso. Il predominio assoluto, e assolutistico, dell’economia di mercato, ha generato effetti di alienazione e di omologazione superiori a qualsiasi altra forma di dittatura o di sistema totalitario, dal fascismo al nazismo, e via discorrendo. Ciò che in Italia non era riuscito al regime fascista di Mussolini durante un intero ventennio, è riuscito al modello di produzione e di consumo neocapitalista nel giro di pochi lustri. Ciò è accaduto anche in Irpinia, una terra immobile ed immutata per secoli, stravolta e sconvolta in poco tempo, soprattutto a partire dai primi anni ’80, anche per effetto di accelerazioni causate dall’evento sismico e dai processi economico-sociali innescati dalla ricostruzione delle aree terremotate.

 Lo “spaesamento” del mio paese natale…

 Oggi, il mio paese natale è un luogo di vita alienante, sempre meno comunità a misura d’uomo, e sempre più una realtà a misura di bottegai affaristi e speculatori. Certo, da noi convivono vecchi e nuovi problemi, piaghe antiche e secolari, come il clientelismo politico-elettorale, la camorra e nuove contraddizioni sociali quali, ad esempio, la disoccupazione, le devianze giovanili, l’alienazione, l’emarginazione sociale e la disperazione che sono effetti provocati dalla modernizzazione puramente economica e materiale di una società che è diventata ormai una società di massa.  Purtroppo, già da diversi anni, anche nelle nostre zone i giovani muoiono a causa di overdose di eroina e fanno uso di sostanze stupefacenti, oppure si schiantano in automobile il sabato sera, dopo una serata trascorsa in discoteca, e via dicendo… Persino il fenomeno dell’emigrazione si è “aggiornato” e “modernizzato”, nel senso che si ripropone in forme nuove e, forse, anche più drammatiche e più gravi del passato. Infatti, una volta gli emigranti irpini, e meridionali in genere, erano lavoratori analfabeti o semianalfabeti, oggi sono in grandissima parte giovani con un elevato grado di scolarizzazione. Inoltre, mentre gli emigranti del passato sovvenzionavano le loro famiglie rimaste nei luoghi di origine, a cui speravano di ricongiungersi il più presto possibile, i giovani di oggi che emigrano verso il Nord lo fanno senza più la speranza, né l’intenzione di far ritorno alla propria terra natale, anzi molto spesso formano e crescono le loro famiglie altrove, laddove si sono economicamente sistemati. Insomma, si tratta di un’emigrazione di cervelli, ossia di giovani intellettuali sui quali le nostre comunità hanno investito molte risorse per farli studiare.

Pertanto, questa è la più grave perdita di ricchezze e di valori per le nostre zone!... Quelle che un tempo erano piccole comunità a misura d’uomo, depositarie di una memoria storica secolare e dotate di un profonda identità fondata soprattutto sulle tradizioni locali e particolaristiche, oggi si sono disgregate e addirittura atomizzate, avendo perso rapidamente la propria dimensione umanistica e popolare, avendo smarrito la propria originale identità socio-culturale, localistica e dialettale, senza tuttavia assumerne una nuova, con inevitabili e devastanti ripercussioni in termini di alienazione sociale e di vuoto esistenziale.

 La “modernizzazione” del Sud come effetto della “post-modernizzazione” del Nord…

 Sul piano strettamente economico, quella irpina non è più una società agraria, ma non è diventata qualcosa di veramente nuovo e diverso, ovvero non si è trasformata completamente, e spontaneamente, in un assetto industriale vero e proprio, pur vantando antiche vocazioni artigianali e commerciali, come quelle che animano le dinamiche e lo sviluppo, forse troppo poco regolato e razionale, dell’economia del mio paese. Oggi, a quasi 26 anni di distanza dal terremoto, la società irpina è più o meno un “ibrido”, sia dal punto di vista economico-materiale, sia sotto il profilo sociale e culturale. Certo, occorre precisare che sul versante propriamente economico-produttivo, la “modernizzazione” delle nostre zone, che fino a pochi decenni fa erano dominate da un tipo di economia agraria, latifondistica e semi-feudale, è avvenuta in tempi rapidi e in modo convulso e controverso. Ciò si è determinato all’interno di un processo di “post-modernizzazione” del sistema capitalistico su scala globale, ossia in una fase di ristrutturazione tecnologica in chiave post-industriale, delle economie neocapitalistiche più avanzate dell’occidente, con il trasferimento di capitali e di macchinari ormai obsoleti in alcune aree arretrate, depresse e sottosviluppate dal punto di vista capitalistico-borghese come, ad esempio, il nostro Meridione. Voglio puntualizzare che anch’io, come Pasolini, credo nel progresso, ma non nello sviluppo, soprattutto in questo tipo di sviluppo selvaggio ed irrazionale che è generato dalla globalizzazione economica neoliberista.

 Una speranza di palingenesi terrena, non ultraterrena...

 Voglio concludere la mia analisi condotta in pieno stile pasoliniano, cioè in modo “corsaro” e “provocatorio”, con il richiamo ad una speranza e ad una volontà di palingenesi spirituale della mia terra, l’Irpinia, a cui sono visceralmente legato, nonostante tutto.

L’opera e le idee di Pasolini erano disperate, ossia prive di speranza, almeno in apparenza; in realtà erano pervase da un profondo sentimento di religiosità, scevro tuttavia di qualsiasi forma di moralismo o di fondamentalismo. La religiosità pasoliniana era indubbiamente laica. D’altronde egli era un intellettuale marxista e marxisticamente ha cercato di analizzare e descrivere la realtà del suo tempo, con coraggio, lucidità ed onestà morale ed intellettuale.  A mio parere, il compito dell’intellettuale è certamente quello di provare ad interpretare e a conoscere la realtà, ma è anche quello di tentare di migliorarla.  Insomma, bisogna comprendere e spiegare il reale, l’essere, ma c’è ancora più bisogno di comprendere e spiegare, dunque attuare, l’ideale, il dover-essere. Ma, da solo, l’intellettuale è impotente, per cui deve riferirsi e agganciarsi alle forze materiali e sociali presenti e operanti nella realtà in un determinato momento storico.  In tal senso, la speranza di rinascita spirituale dell’umanità, a partire dalla mia umanità, deve esplicarsi in un progetto di trasformazione concreta, da proporre e promuovere politicamente, ossia in sede terrena, non ultraterrena. Si può e si deve cominciare dal basso, dal piccolo, dal semplice, per arrivare in alto, per pensare ed agire in grande, cambiando magari il mondo in cui viviamo.

 

Lucio Garofalo        ( c/o  www.italialaica.it)