La morte di Giuseppe Barbaglio
Un biblista senza reticenza alcuna
Si è spento ieri Giuseppe Barbaglio, grande biblista, amico
carissimo incontrato a Montegiove. Chi ci leggerà il Vecchio e Nuovo Testamento
con quel rigore filologico e quella letizia interna che ne afferrava il
messaggio sapienziale? E in più un senso della grazia che manca a me e ad altri,
che pur si ritrovavano in quell'eremo, e lo faceva insistere sul Dio amoroso che
correrebbe come un filo rosso in tutta la Bibbia e che gli atei impenitenti gli
contestavano, eccezion fatta per il luminoso Genesi? Non so come la chiesa la
mettesse con lui, cristiano e cattolico, sul cui libro maggiore Gesù, un ebreo
di Galilea (Ed. Dehoniane, 2002) il Vaticano aveva calato il silenzio. Ricerca
storica senza reticenza, aveva avuto una grande diffusione ed era stato seguito
da più d'un volume su Paolo, che in verità Barbaglio prediligeva, trovando
probabilmente troppo semplice la sensibilità dei non credenti al fascino del
Nazareno più che all'elaborazione che ne aveva fatto l'ebreo folgorato sulla via
di Damasco. E senza la quale il cristianesimo non sarebbe quel che è, né avrebbe
sfondato così rapidamente i confini dell'ebraismo e dell'ellenismo del suo
tempo. Il pensiero di Paolo (La teologia di Paolo Ed. Dehoniane 2001) è quello
che non ha cessato di interrogare e verificato nella sterminata letteratura che
è seguita. Al cui centro resta, credo, il problema posto da Bultmann se il
cristanesimo sarebbe quel che è, anche senza la divinità di Cristo o se sia essa
a determinarlo. Credente, non si poneva questa domanda, come prendeva con
rassegnazione le sortite di colui che alcuni uomini in saio chiamano il
professor Ratzinger. Altro gli interessava e certo lo confortava da uomo di
fede. Come da storico andava a fondo nel confronto fra leggenda e prove
testimonate, fra canone e testi apocrifi. Quel primo secolo di tumulti
interiori, attese e rimandi di una salvezza che non veniva, sprofondamento in
una interiorità dell'umano che la laicità avrebbe definito molti secoli dopo, mi
pareva prendere nelle sue parole tutti gli spessori che lo avvicinano alle
moderne età dell'ansia. E che a chiesa trionfante del dopo e di adesso mi sembra
avere perduto. Non abbiamo avuto tempo di parlarne. Il cancro lo ha divorato
senza aver ragione del suo sorriso finché, per la prima volta, due mesi fa lo ha
privato per qualche minuto della parola. Non della lucidità, con la quale ha
vissuto le ultime ore facendo segno sino alla fine a coloro che amava.
Rossana Rossanda Il manifesto 2/3/2007