La morte del
vescovo contadino nella notte di San Salvador
Una sera, 30 anni fa hanno ucciso il vescovo Oscar Arnulfo Romero,
sull’altare, in Salvador. Roma
lo aveva lasciato solo e le squadre della morte hanno liberato agrari e
militari dall’uomo di pace che
voleva sciogliere dalla schiavitù folle di contadini affamati. Oggi non basta
ricordarlo. Non è stato
facile anche allora. Il segretario di Stato americano, Rockefeller, aveva
indicato vescovi e teologi
della liberazione “affascinati dalle teorie marxiste”, responsabili dei problemi
che minacciavano gli
interessi degli Stati Uniti nel giardino di casa. Raccontare di Romero (che non
si affascinava per
questa teologia) era difficile anche in Italia. Il Salvador restava un puntino
sconosciuto. Si
sospettava nel vescovo la “passione incongrua e populista” estranea alla
solennità del Vaticano. E
poi gli intrighi di Mosca complicavano la Guerra fredda: pericoloso aprire
varchi nel muro che
difendeva “il mondo libero e cristiano”. Del primo incontro non ho scritto
niente: “Per il momento
mettilo da parte. Vediamo cosa succede…”. Era il Corriere della P2. Un
giornalista numerario P2 –
Roberto Gervaso – era stato accolto in Nicaragua nel bunker dove si nascondeva
il dittatore Somoza
irraggiungibile per i giornalisti normali. Gervaso non lo aveva trovato
malvagio.
UN PRETE DI CAMPAGNA
29 giugno 1978, quasi le 8 del mattino, Romero arriva con una piccola auto, al
volante un
seminarista. Sembra un prete di campagna. Scende e la tonaca si alza scoprendo
la caviglia pallida:
calza ripiegata sulle scarpe, l’ elastico strappato. Tenerezza e delusione. Come
può così fragile
affrontare l’oligarchia? Non sapevamo della sua vita. Non sapevamo che un anno
prima gli uomini
di Orden (miliziani senza divisa della Guardia Nacional) avevano ucciso padre
Rutilio Grande e due
catechisti. Rutilio era l’amico sicuro di Romero il cui percorso spirituale si
era a lungo rifugiato
nella Chiesa della conservazione, Opus Dei, nunziatura impegnata a mantenere
buoni rapporti coi
governi che umiliavano la sofferenza della folla senza niente.
Ma i massacri di contadini e l’uccisione del gesuita che lo aveva
accompagnato dal seminario alla
cattedra di primate, scioglie i dubbi che lo tormentavano. Chiede
un’indagine seria all’amico
presidente. Risposte vaghe e Romero decide (per la prima volta nella storia del
Salvador) di non
salire sul palco il giorno della festa nazionale. Il nunzio c’è; rappresenta
Roma, non la chiesa
nazionale.
Nel’78 gli parlo come posso. Risponde con poche parole. L’impressione che abbia
paura. Torno
l’anno dopo e Romero è cambiato. Ancora domenica, messa nella cattedrale che un
incendio ha
divorato. Tralicci di cemento puntellano pareti fuligginose. Nessun oro o quadri
o legni barocchi.
Alle 7 e mezza del mattino la chiesa è stracolma. I due giornali importanti
pubblicano nell’ultima
pagina l’immagine di Giovanni Paolo II e un suo ammonimento tra virgolette:
“Guai ai sacerdoti
che fanno politica nella chiesa perché la chiesa è di tutti”. I militari della
Guardia Nacional vegliano
attorno alla cattedrale con le armi in mano. Non si sa mai. E Romero parla. La
sua omelia resta la
sola manifestazione pubblica sopportata dal governo. Si alza da una sedia che è
una sedia di casa.
“Vorrei discutere con voi quale significato dare al vangelo di oggi. Nozze di
Canaa, moltiplicazione
dei pani simbolo d’una difficoltà che Cristo può sciogliere e la può sciogliere
con l’aiuto degli uomini.
È un pane spirituale, ma anche un pane vero che può sfamare
tutti. Basta volerlo…”.
Applauso interminabile: “E perché possiate avere il vostro pane è necessaria una
trasformazione
politica. Non sarà la Chiesa a governare la trasformazione, ma la Chiesa ha il
dovere di segnalare
l’ingiustizia”. Strani fedeli. Mendicanti o contadini con addosso stracci,
mescolati a persone dalla
dignità borghese. Conclusa l’omelia, il vescovo prende un foglio. “Devo darvi
alcune
informazioni…”. Informa che un medico è stato prelevato da sconosciuti
“probabilmente dipendenti
dal ministero dell’interno”. L’ufficio legale della diocesi lo sta cercando. I
nomi cambiano, elenco
dei desaparecidos: un ragazzo morto fra i rifiuti di una discarica. Nome,
cognome, età. “Corpo che
presenta segni di tortura”. Scoppiano pianti, voci di rabbia. Romero riprende:
“Responsabile del
rapimento e del delitto sarebbe l’ufficio operazioni speciali dell’esercito,
ufficio che ha per
comandante…”.
I NOMI DEI KILLER.
Nome e cognome non solo dell’assassino dello studente ma nomi
e cognomi
dei responsabili di tutti i morti che continua ad elencare. Il giorno dopo
parliamo nell’ufficio di San
José de La Montagna, seminario che ha trasformato in accampamento per donne e
bambini in fuga
dal terrore delle campagne dove le truppe speciali bruciano la gente per fare
vuoto attorno alla
guerriglia. “Rutilio…”, provo a dire. “Sapevo che Rutilio non poteva essere
comunista. Qualche
volta non ero d’accordo sulle sue aperture sociali. Ne discutevamo col rispetto
di chi prova ad
affrontare i terremoti sociali interpretando la dottrina della Chiesa.
‘Comunista...’, insistevano
mentendo”. Si dice che lei era conservatore... “Non lo ero; continuo a
esserlo per conservare gli
insegnamenti sociali del Concilio vaticano II. Voglio che il mondo ideale al
quale affido le mie preghiere possa essere salvato dalla violenza di pochi
interessi”.
È il primo di tanti incontri. Parlavamo passeggiando sotto le
arcate che accompagnano il primo piano del seminario. Sempre
più malinconico e con un peso nel cuore. Voleva incontrare Giovanni Paolo II per
“spiegare dei
sacerdoti uccisi, dei giovani cattolici che sparivano, della dinamite che
sbriciola la redazione di
Orientacion”, giornale della diocesi: raccoglieva le sue prediche
ufficializzando le denunce. Da
Roma e dal nunzio nessuna risposta. Ma una volta all’aeroporto del Salvador mi
accoglie una
grande immagine di Romero e Giovanni Paolo II: stanno parlando. Gli telefono:
allora ce l’ha fatta.
Spiegherà a voce. Passeggiando racconta che l’incontro è stato un lampo: “Metta
via le sue
carte…”, ordine quasi brusco. Documenti che provavano la sofferenza di una
chiesa del silenzio
della quale Roma non voleva parlare. “Ho spiegato qualcosa. Pochi minuti e
subito la foto…”. La
sua voce si crepa nella commozione. L’ultimo segno rimasto nel registratore è di
quando Romero
non predicava in cattedrale o parlava nel piccolo ufficio: discorso nella
cappella del Sagrado
Corazón . Perché la cattedrale era occupata dai senza speranza: non solo
affamati, anche la paura di
chi non si piegava ai dogmi dell’oligarchia. In due anni 7mila persone erano
sparite a San Salvador.
Il dipartimento di Washington incoraggiava questo tipo di ordine con 6 milioni
di dollari al giorno.
A chi lo andava a trovare, Romero anticipava la speranza dell’ultima omelia,
invito forse fatale. Si
rivolgeva ai militari con la semplicità di un parroco: “Siamo fratelli nello
stesso popolo, non
obbedite agli ordini di chi vi chiede di uccidere quei fratelli colpevoli di
pretendere il pane per le
famiglie affamate”.Non è un’illusione? è la domanda. “Ho parlato con chi
combatte in montagna.
Sono in tanti disposti ad abbassare le armi: perché non dovrebbero farlo i
contadini in divisa?”. Non
sta esagerando nell’utopia?”. Romero finalmente sorride: “Se non credessi
nell’utopia sarei vestito
così?”. Ma ormai si sconsolava: “Sto diventando pastore di una paese di
cadaveri”.
BEATIFICAZIONE DIFFICILE
Dopo la sua morte, abbiamo chiesto al generale Abdullah Gutierrez, uomo forte
della giunta
militare, di spiegare l’assassinio di Romero. Con l’imbarazzo di chi ammette il
peccato scandaloso
contro una persona di rispetto sussurra: “Purtroppo era un terzomondista”.
Peggio di comunista;
nessuna speranza di redenzione. Nel primo viaggio in Salvador Giovanni Paolo II
rende omaggio
alla sua tomba coperta di fiori ed ex voto, al tempo ancora di fianco
dell’altare della cattedrale. Lo
definisce “zelante pastore” e al popolo del Salvador sembra poco. Il vescovo
Pedro Calsaldaliga
anni fa viene “processato” dal cardinale Ratzinger per aver esposto un ritratto
di Romero all’esterno
della sua cattedrale contadina nel Brasile profondo dello Xingu. Il rimprovero è
per la scritta “santo
del popolo americano”, Roma la riteneva (e ritiene) prematura. Il vescovo
Vincenzo Paglia,
ispiratore della Comunità di sant’Egidio, accompagna la beatificazione di Romero
fra non poche
difficoltà. E Jesus Delgado, segretario di Romero e vicario della diocesi di San
Salvador, ricorda
che “3 o 4 cardinali s’oppongono”. Chissà perché.
Maurizio Chierici il Fatto Quotidiano 24 marzo 2010