La morte del
prossimo
«Non amano l’acqua, molti di loro puzzano perché tengono lo stesso vestito
per molte settimane. Si
costruiscono baracche di legno ed alluminio nelle periferie delle città dove
vivono, vicini gli uni
agli altri. Quando riescono ad avvicinarsi al centro affittano a caro prezzo
appartamenti fatiscenti. Si
presentano di solito in due e cercano una stanza con uso di cucina. Dopo pochi
giorni diventano
quattro, sei, dieci. Tra loro parlano lingue a noi incomprensibili,
probabilmente antichi dialetti.
Molti bambini vengono utilizzati per chiedere l’elemosina ma sovente davanti
alle chiese donne
vestite di scuro e uomini quasi sempre anziani invocano pietà, con toni
lamentosi e petulanti.
Fanno molti figli che faticano a mantenere e sono assai uniti tra di loro.
Dicono che siano dediti al furto e, se ostacolati, violenti. Le nostre donne li
evitano non solo perché
poco attraenti e selvatici ma perché si è diffusa la voce di alcuni stupri
consumati dopo agguati in
strade periferiche quando le donne tornano dal lavoro. I nostri governanti hanno
aperto troppo gli
ingressi alle frontiere ma, soprattutto, non hanno saputo selezionare tra coloro
che entrano nel
nostro paese per lavorare e quelli che pensano di vivere di espedienti o,
addirittura, attività
criminali».
Così prosegue una relazione del 1912 dell’Ispettorato per l’Immigrazione del
Congresso americano
sugli immigrati italiani: «Propongo che si privilegino i veneti e i
lombardi, tardi di comprendonio e
ignoranti ma disposti più di altri a lavorare. Si adattano ad abitazioni che gli
americani rifiutano pur
che le famiglie rimangano unite e non contestano il salario. Gli altri, quelli
ai quali è riferita gran
parte di questa prima relazione, provengono dal sud dell’Italia. Vi invito a
controllare i documenti
di provenienza e a rimpatriare i più. La nostra sicurezza deve essere la prima
preoccupazione».
La camera dei deputati ha appena finito di approvare delle
norme per la nostra sicurezza. Non sono
le prime e non saranno le ultime. Non si sa quanto saranno efficaci. Però ci
dicono con chiarezza chi
e che cosa attenta alla nostra pace. I nostri governanti, ormai totalmente
impegnati in una campagna
elettorale per il rinnovo del Parlamento europeo e di importanti amministrazioni
locali, ritengono di
interpretare al meglio i nostri sentimenti indicando nello straniero clandestino
il vero perturbatore
dei nostri sonni.
Essi ci dicono che la nostra diffidenza e la nostra paura sono pienamente
giustificate perché, dati
alla mano, tra gli autori di reato la percentuale di stranieri irregolari è
molto rilevante.
Questa constatazione ha portato la nostra classe politica a ritenere che: 1) gli
stranieri si farebbero
scudo della loro clandestinità per commettere impunemente ogni sorta di crimini;
2) la scarsa
severità del nostro sistema penale e la porosità dei nostri confini
attirerebbero proprio quegli
stranieri disposti a delinquere. Si tratta di analisi di comodo ma molto utili a
conquistare l'elettorato
più esposto alle difficili convivenze con le comunità straniere e alle paure,
reali e immaginarie, che
ne scaturiscono.
Non si cerca però di spiegare la presenza silenziosa di circa un milione di
irregolari ai quali
affidiamo quotidianamente gli affetti più cari, dai nostri figli agli anziani
genitori, nonché i mestieri
più duri e i settori vitali della nostra economia sommersa.
La legge sulla sicurezza è dunque pronta a sacrificare questo immenso
patrimonio umano pur di
placare la nostra sindrome da cittadella assediata. Dovremo, dunque,
sentirci più sicuri grazie alla
equiparazione legale tra clandestino e criminale, al divieto per lo straniero
irregolare di sposarsi
nella nostra terra e di riconoscere i suoi figli se non a prezzo di confessare
il peccato originario di
un'esistenza che noi consideriamo abusiva. Nell'ora tarda raggiungeremo più
sereni le nostre camere
da letto, dopo esserci nutriti con l'intrattenimento televisivo, perché il
deserto nel quale abbiamo
lasciato i nostri quartieri-dormitorio sarà finalmente sorvegliato da pattuglie
ideologicamente orientate
nella lotta allo straniero.
In realtà questa legge è destinata a funzionare poco e male se solo si pensa che
l'accertamento del
reato di clandestinità sarà affidato alle cure del giudice di pace, per sua
natura inadatto a veicolare
obiettivi puramente repressivi, chiamato ai compiti impropri di «buttafuori»
degli indesiderabili
stranieri, addetto ad una fucina delle espulsioni che farà saltare le fragili
ossa di quella struttura
giudiziaria.
Poco importa se la legge non funzionerà. Anzi: molti di coloro che l'hanno
votata sperano che il
meccanismo si inceppi proprio per evitare che badanti, muratori, imbianchini,
braccianti — dopo
essere sfilati davanti al giudice di pace — siano costretti a sguarnire le loro
occupazioni a basso
costo.
Intanto, al di là dell'evidente finalità elettoralistica, la
conseguenza immediata di quella normativa è
il rafforzamento di una cultura del sospetto e del disprezzo verso lo straniero.
E, d'altra parte, questa è una delle strade maestre che permette alla nostra
società di consumare,
dopo la morte di Dio annunciata da Nietzsche alla fine dell'ottocento, anche
quella del prossimo con
il quale lo straniero è stato da sempre identificato. Leggi come questa
celebrano la morte del
prossimo e intonano il canto funebre della «seconda relazione fondamentale
dell'uomo» (1) facendolo
così cadere in una irreversibile solitudine. Ma, in fondo, questo
prossimo non era già morto quando
gli italiani erano gli stranieri di turno ed emigravano sedotti dal sogno
americano? O c'è una
differenza di cui rendere conto tra l'emigrato italiano puzzolente di allora e
il senegalese accampato
in una fabbrica abbandonata a Rosario? Io credo che una differenza ci sia.
Perché il nostro antenato cercava fortuna in terra straniera, anche attraverso
percorsi criminali, nella
piena consapevolezza di non contare nulla per la società ospitante. Gli
extracomunitari di oggi, che
cercano di approdare sulle nostre coste, hanno invece l'ardire di accampare dei
diritti per trovare
rifugio da una guerra, un lavoro dignitoso e, magari, sposarsi e mettere su
famiglia. Ma è proprio
questo che la maggior parte dei governi delle nazioni occidentali e, ormai,
molti esponenti del
mondo «progressista» non sono disposti a tollerare: che gli stranieri
possano, appunto, invocare dei
diritti. Per questo si rende necessaria una legge che quei diritti escluda
e, per questa via, sancisca e
legalizzi una discriminazione che mette a dura prova la coscienza di tutti noi.
Marco Bouchard in “Riforma” n. 20 del 22 maggio 2009
1 Luigi Zoja, La morte del prossimo, Einaudi, Torino 2009