La moratoria sull'aborto ultima violenza alle donne
In una concezione non dogmatica ma (auto)critica della democrazia, quale è
propria di ogni spirito laico, nessuna decisione presa è, per ciò stesso,
indiscutibile. Il rifiuto della ri-discussione è per ciò stesso una posizione
dogmatica, che può nascondere un eccesso o un difetto di sicurezza circa le
proprie buone ragioni. Questo, in linea di principio, riguarda dunque anche la
legge sull´interruzione volontaria della gravidanza, "la 194", che pur ha dalla
sua due sentenze della Corte costituzionale e un referendum popolare.
Ma una discussione costruttiva e, mi sia permesso dire, onesta è il contrario
delle parole d´ordine a effetto, che fanno confusione, servono per "crociate"
che finiscono per mettere le persone le une contro le altre. Lo slogan
"moratoria dell´aborto", stabilendo una "stringente analogia" (cardinal Bagnasco
alla Cei, il 21 gennaio) tra pena di morte e aborto, accomunati come assassinii
legali, ha sì riaperto il problema, ma in modo tale da riaprire anche uno
scontro sociale e culturale che vedrebbe, nientemeno, schierati i fautori della
vita contro i fautori della morte: i primi, paladini dei valori cristiani; i
secondi, intossicati dal famigerato relativismo etico. Insomma, alle solite, un
nuovo fronte di quello "scontro di civiltà" che, molti insofferenti della
difficile tolleranza, mentre dicono di paventarlo, lo auspicano.
Siamo di fronte, come si è detto, a una "iniziativa amica delle donne"? Vediamo.
La questione aborto è un intreccio di violenze. Innanzitutto, indubitabilmente,
la violenza sull´essere umano in formazione, privato del diritto alla vita.
Ma, in numerose circostanze, ci può essere violenza nella gravidanza stessa,
questa volta contro la donna, quando la salute ne sia minacciata, non solo nel
corpo ma anche nella mente, da sentimenti di colpa o di sopraffazione,
solitudine, indigenza, abbandono. La donna incinta, nelle condizioni normali, è
l´orgoglio, onorato e protetto, della società di cui è parte; ma, nelle
situazioni anormali, può diventarne la vergogna, il peso o la pietra dello
scandalo, scartata e male o punto tollerata. D´altra parte, non solo la
gravidanza, ma l´aborto stesso, percepito come via d´uscita da situazioni di
necessità senza altro sbocco, si traduce in violenza anche verso la donna,
costretta a privarsi del suo diritto alla maternità. C´è poi un potenziale di
somma violenza nella capacità limitata delle società umane ad accogliere nuovi
nati. La naturale finitezza della terra e delle sue risorse sta contro la
pressione demografica crescente e la durata della vita umana. L´iniqua
ripartizione dei beni della terra tra i popoli, poi, induce soprattutto le
nazioni più povere a politiche pubbliche di limitazione della natalità che si
avvalgono, come loro mezzo, dell´aborto.
Violenze su violenze d´ogni origine, dunque: violenza della natura sulle
società; delle società sulla donna; della donna su se stessa e sull´essere
indifeso ch´essa porta in sé. E´ certamente una tragica condizione quella in cui
il concepimento di un essere umano porta con sé un tale potenziale di violenza.
Noi forse comprendiamo così il senso profondo della maledizione di Dio:
«Moltiplicherò i tuoi dolori e le tue gravidanze» (Gen. 3, 22). Si potrebbe dire
che l´aborto, nella maggior parte dei casi, è violenza di deboli su più deboli,
provocata da una violenza anteriore. Ma questa è la condizione umana, fino a
quando essa patisce la crudeltà della natura e l´ingiustizia della società; una
condizione che nessuna minaccia di pene anche severissime, con riguardo
all´ultimo anello della catena, quello che unisce la donna al concepito, ha mai
potuto cambiare, ma ha sempre e solo sospinto nella clandestinità, con un
ulteriore carico di umiliazione e violenza, fisica e morale.
In questo quadro, che molte donne conoscono bene, che cosa significa la parola
moratoria? Dove si inserirebbe, in questa catena di violenza? La domanda è
capitale per capire di che cosa parliamo.
Una cosa è chiedere alle Nazioni Unite di condannare i Paesi che usano l´aborto
come strumento di controllo demografico e di selezione "di genere". Un celebre
scritto del premio Nobel Amartya Sen, pubblicato sulla New York Review of Books
del 1991, ha richiamato l´attenzione sul fatto che «più di 100 milioni di donne
mancano all´appello». Si mostrava lo squilibrio esistente e crescente tra maschi
e femmine in Paesi come l´India e la Cina (ma la questione riguarda tutto
l´estremo Oriente: quasi la metà degli abitanti del pianeta). Si prevede, ad
esempio, che in Cina, nel 2030, l´eccesso di uomini sul "mercato matrimoniale"
potrebbe raggiungere il 20%, con drammatiche conseguenze sociali. Le ragioni
sono economiche, sociali e culturali molto profonde, radicate e differenziate.
Le cause immediate, però, sono l´aborto selettivo e l´infanticidio a danno delle
bambine, oltre che l´abbandono nei primi anni di vita. In quanto, però, vi siano
politiche pubbliche di incentivazione o, addirittura, di imposizione, la
richiesta di "moratoria" ha certamente un senso. Si interromperebbe la catena
della violenza al livello della cosiddetta bio-politica, con effetti liberatori.
E diverso, in riferimento alle società dove l´aborto non è imposto, ma è, sotto
certe condizioni, ammesso. "Moratoria" non può significare che divieto. Per noi,
sarebbe un tornare a prima del 1975, quando la donna che abortiva lo faceva
illegalmente, e dunque clandestinamente, rischiando severe sanzioni. Questo
esito, per ora, non è dichiarato. I tempi paiono non consentirlo. Ci si limita a
chiedere la "revisione" della legge che "regola" l´aborto. Ma l´obbiettivo è
quello, come la "stringente analogia" con l´abolizione della pena di morte
mostra e come del resto dice il card. Bagnasco: «Non ci può mai essere alcuna
legge giusta che regoli l´aborto».
Qual è il punto della catena di violenza che la "moratoria" mira a colpire? E´
l´ultimo: quello che drammaticamente mette a tu per tu la donna e il concepito.
Isolando il dramma dal contesto di tutte le altre violenze, è facile dire:
l´inerme, il fragile, l´incolpevole deve essere protetto dalla legge, contro
l´arbitrio del più forte. Ma la donna, a sua volta, è soggetto debole rispetto a
tante altre violenze psicofisiche, morali, sociali, economiche, incombenti su di
lei. La legge che vietasse l´aborto finirebbe per caricarla integralmente
dell´intero peso della violenza di cui la società è intrisa: un peso in molti
casi schiacciante, giustificabile solo agli occhi di chi concepisce la maternità
come preminente funzione biologico-sociale che ha nell´apparato riproduttivo
della donna il suo organo: «Moltiplicherò i tuoi dolori e le tue gravidanze»,
appunto. Si comprende, così, che la questione dell´aborto ha sullo sfondo la
concezione primaria delle donne come persone oppure come strumenti di
riproduzione. E si comprende altresì la ribellione femminile a questa visione
della loro sessualità come ufficio sociale.
«La condizione della donna gestante è del tutto particolare» e non è giusto
gravarla di tanto peso, ha detto la Corte costituzionale in una sua sentenza del
1975, la n. 27. Convivono due soggetti, l´uno dipendente dall´altro, entrambi
titolari di diritti, potenzialmente in contraddizione: tragicamente, la donna
può diventare nemica del concepito; il concepito, della donna. Da un lato, sta
la tutela del concepito fondata sul riconoscimento costituzionale dei diritti
inviolabili dell´uomo, «sia pure con le particolari caratteristiche sue
proprie», trattandosi di chi «persona deve ancora diventare». Dall´altro, sta il
diritto all´esistenza e alla salute della donna, che «è già persona». Il
riconoscimento pieno del diritto di uno si traduce necessariamente nella
negazione del diritto dell´altro. Per questo, è incostituzionale l´obbligo
giuridico di portare a termine la gravidanza, "costi quel che costi"; ma, per il
verso opposto, è incostituzionale anche la pura e semplice volontà della donna,
cioè il suo "diritto potestativo" sul concepito (sent. n. 35 del 1997). Si sono
cercate soluzioni, per così dire, intermedie, ed è ciò che ha fatto "la 194",
prevedendo assistenza sanitaria, limiti di tempo, ipotesi specifiche (stupro o
malformazioni) e procedure presso centri ad hoc che accompagnano la donna nella
sua decisione: una decisione che, a parte casi particolari (ragazze minorenni),
è sua. La donna, dunque, alla fine, è sola di fronte al concepito e, secondo le
circostanze, può essere tragicamente contro di lui. Qui, una mediazione tra i
due diritti in conflitto (della donna e del concepito) non è più possibile: aut
aut.
Le posizioni di principio sono incompatibili, oggi si dice "non negoziabili":
l´autodeterminazione della donna contro l´imposizione dello Stato; la
procreazione come evento di rilevanza principalmente privata o principalmente
pubblica; la concezione del feto come soggetto non ancora formato o come persona
umana in formazione; la legge come strumento di mitigazione dei disastri sociali
(l´aborto clandestino) o come testimonianza di una visione morale della vita.
Alla fine, il vero contrasto è tra una concezione della società incentrata sui
suoi componenti, i loro diritti e le loro responsabilità, e un´altra concezione
incentrata sull´organismo sociale, i cui componenti sono organi gravati di
doveri, anche estremi. Si vede il dissidio, per così dire, allo stato puro nel
caso della scelta tra la vita della madre e quella del feto, quando non
possibile salvare e l´una e l´altra: la sensibilità non cattolica più diffusa
dice: prevalga la vita della donna, persona in atto; la morale cattolica dice:
prevalga la vita del nascituro, persona solo in potenza.
Secondo le circostanze. Sul terreno delle circostanze, a differenza di quello
dei principi, è possibile lavorare pragmaticamente per ridurre, nei limiti del
possibile, le violenze generatrici di aborto. Educazione sessuale, per prevenire
le gravidanze che non si potranno poi sostenere; giustizia sociale, per
assicurare alle giovani coppie la tranquillità verso un avvenire in cui la
nascita d´un figlio non sia un dramma; occupazione e stabilità nel lavoro, per
evitare alla donna il ricatto del licenziamento; servizi sociali e sostegni
economici a favore della libertà dei genitori indigenti. Dalla mancanza di tutto
questo dipende l´aborto "di necessità", che – si dirà - è però una parte
soltanto del problema. Ma l´altra parte, l´aborto "per leggerezza", troverà
comunque le sue vie di fatto per chi ha i mezzi di procurarselo,
indipendentemente dalla legge. In ogni caso, non è accettabile che di necessità
e leggerezza si faccia un unico fascio a danno dei più deboli, spinti dalla
necessità, e li si metta sotto la cappa inquisitoriale della criminalizzazione e
delle intimidazioni morali, come l´equiparazione dell´aborto all´omicidio e
della donna all´omicida. La sorte dei concepiti non voluti si consumerà
ugualmente, nel confort delle cliniche private o nella solitudine,
nell´umiliazione e nel rischio per l´incolumità. L´esito del referendum del 1981
che, a grande maggioranza (il 68 %) ha confermato "la 194", dipese di certo dal
ricordo ancora vivo di ciò che era stato l´aborto clandestino. Ci si può
augurare che non se ne debba rifare l´esperienza, per ravvivare il ricordo.
Gustavo Zagrebelsky Repubblica 28.1.07