La menzogna in politica e il diritto alla verità
Mai come in questi tempi
spazio pubblico e spazio privato si sono così intensamente mescolati fin quasi a
rendere indistinguibili i loro confini. Addirittura lo spazio privato sembra
svanire nell´era di Facebook e di YouTube, delle infinite e
continue tracce elettroniche, dell´impietosa radiografia mediatica d´ogni mossa,
contatto, preferenza. Dobbiamo accettare la brutale semplificazione di chi ha
affermato "la privacy è finita. Rassegnatevi"? O dobbiamo ridisegnarne i
confini senza perdere i benefici della trasparenza che, soprattutto nella sfera
della politica, le nuove tecnologie rendono possibili? La politica, appunto. Nel
nuovissimo panorama tornano, intatte e ancor più ineludibili, antiche questioni.
Quali sono i doveri dell´uomo pubblico? Quale dev´essere la sua moralità?
Possono
convivere vizi privati e pubbliche virtù? Può il politico coltivare la pretesa
di stabilire egli stesso fin dove può giungere lo sguardo dei cittadini? E
soprattutto: qual è il rapporto tra verità e politica nel tempo della
comunicazione globale?
«La menzogna ci è familiare fin dagli albori della storia scritta. L´abitudine a
dire la verità non è mai stata annoverata tra le virtù politiche e le menzogne
sono state sempre considerate giustificabili negli affari politici». Così Hanna
Arendt, che tuttavia in questa lunga abitudine non vedeva un dato da accettare
in nome di un troppo facile realismo politico. Al contrario, contro la
menzogna bisogna lottare non solo per la sua intrinseca immoralità, ma per i
suoi effetti distruttivi proprio dello spazio della politica. Dove
esiste un establishment, un ceto politico consapevole della necessità di
mantenere la propria legittimità nei confronti dei cittadini, la pubblica
menzogna sui propri fatti privati porta all´espulsione del mentitore. John
Profumo è costretto a dimettersi perché ha mentito alla Camera dei Comuni sulla
sua relazione con Christine Keeler. Gary Hart è costretto ad abbandonare la vita
politica e le sue ambizioni di candidato alla presidenza degli Stati Uniti per
aver sfidato la stampa sull´esistenza di sue relazioni sessuali, che i
giornalisti, facendo bene il loro mestiere, impietosamente scoprono. Non
un sussulto moralistico, ma l´affidabilità stessa del politico rende
inammissibile la menzogna.
Questo significa che parlare del rapporto tra menzogna e politica esige
distinzioni. Vi è la menzogna in nome della salute della Repubblica, quella su
vicende private del politico, quella che vuol salvaguardare uno spazio di
intimità di cui nessuno può essere espropriato. Né il primo, né l´ultimo caso
possono essere invocati nella vicenda che coinvolge Silvio Berlusconi. Per
quanto sia divenuta totalizzante l´identificazione sua con i destini del paese,
non si può certo ritenere che il suo parlar franco sui rapporti con una giovane
ragazza metta a rischio il sistema politico italiano. Al contrario,
proprio le sue reticenze, i silenzi e le contraddizioni stanno producendo
effetti perversi nella sfera pubblica. La difesa della privacy, il
rifiuto di una politica fatta di un guardare nel buco della serratura? Chi
ragiona in questo modo sembra ignorare il modo in cui la vicenda è stata resa
pubblica, la denuncia circostanziata e impietosa di Veronica Lario, i suoi
diretti riferimenti politici. Lì si parlava della figura pubblica di Berlusconi,
non di qualche pettegolezzo privato. Da decenni, peraltro, è cosa nota e
consolidata che i politici godono di una più ridotta "aspettativa di privacy",
proprio perché la decisione di vivere in pubblico e di gestire la cosa pubblica
impone loro di rendere possibile una conoscenza ampia e una valutazione continua
proprio da parte di quei cittadini al cui giudizio il presidente del Consiglio
sembra tenere tanto.
Chi,
allora, ha "diritto alla verità"? Questo interrogativo, che divise Immanuel
Kant e Benjamin Constant, è proprio quello che sta al centro della discussione
italiana. Al deciso universalismo di Kant, Constant opponeva che «nessun uomo ha
diritto a una verità che nuoccia ad altri». Qui possiamo astenerci dal
ripercorrere quella storica discussione, perché proprio la rilevanza politica
del caso esclude comunque che la verità possa nuocere a persona diversa dal
presidente del Consiglio, mentre il silenzio o la menzogna pregiudicano proprio
quel diritto di sapere che costituisce ormai uno dei caratteri della democrazia,
che sfida il machiavelliano uso politico della menzogna come strumento per
mantenere il potere. Molte volte si è sottolineato che le procedure di
occultamento della verità hanno sempre accompagnato i regimi totalitari, mentre
l´accesso alla verità è sempre stato una prerogativa delle libere assemblee, a
partire dalla democrazia di Atene.
Il diritto alla verità, in questo caso più che mai, è diritto di tutti. È stato
proprio il presidente del Consiglio a rendere ineludibile la questione con le
sue reticenze, le doppie versioni, il distogliere lo sguardo da fatti
incontestabili. Il suo rifiuto di rispondere a domande specifiche, e tutt´altro
che pretestuose proprio perché riferite a dati precisi, assomiglia assai a
quella "facoltà di non rispondere" di cui giustamente può giovarsi l´indagato o
l´imputato. "Nemo ternetur se detegere", recita un´antica e civile
formula giuridica, che si può spiegare con le parole di un vecchio commentatore:
«non imporre a nessuno, neppure allo scellerato più infame, di rivelare il
malfatto». Quali consiglieri, ammesso che ce ne siano, hanno suggerito al
presidente del Consiglio di seguire una strada così scivolosa?
Una menzogna può acquietare i fedeli di un politico, ma lo spinge a rinserrarsi
nel suo campo trincerato, corrode la fiducia dei cittadini in un tempo in cui
proprio la produzione di fiducia è considerata un elemento indispensabile per
restituire alla politica un vero consenso. Non è il moralismo a spingere
verso questa conclusione, anche se oggi soffriamo proprio di un deficit
spaventoso di moralità pubblica. La democrazia, ricordiamolo, non è solo governo
del popolo, ma governo "in pubblico". Qui, in questa semplice e profonda
verità, sta l´inammissibilità della menzogna in politica, che si trasforma
proprio nella pretesa di non rendere conto dei propri comportamenti da parte di
chi ha liberamente scelto di uscire dal rassicurante spazio privato per essere
protagonista nello spazio pubblico.
Stefano Rodotà La Repubblica 26.5.09