La memoria inutile
La memoria, che in Italia non è mai diventata musica di fondo della
politica come nelle nazioni che
con tenacia hanno lavorato sul proprio passato (parliamo in modo speciale della
Germania, ma
l’esame di coscienza fu approfondito anche in Sud Africa, unendo la sete di
verità al bisogno di
riconciliazione), è raramente trattata, dalla nostra classe dirigente,
come qualcosa che aiuta a capire
perché un male è nato, perché si perpetua mutando le forme, perché i rimedi non
l’hanno curato ma
anzi aggravato. La memoria in Italia rischiara poco il passato e
per nulla il presente: è una memoria
ancillare, e quasi sempre emiplegica. Ancillare, perché asservita a
questa o quella forza politica
oltre che a effimere contingenze.
Emiplegica, perché chi la strumentalizza fa salire in superficie solo i
frammenti di passato che gli
permettono di evitare, e tradire, l’esame di coscienza.
Come nel malato emiplegico, una parte della memoria storica resta immersa in un
sonno scuro che
consente ai ricordi di restare selettivi e che impedisce il giudizio storico.
Verso la storia, parecchi
politici e giornalisti hanno uno strano atteggiamento: da una parte ammettono
che non possono
scriverla loro, essendo troppo coinvolti nel presente. Dall’altra pretendono di
dirla in prima persona,
fingendo olimpiche distanze che non possiedono.
Il direttore del Tg1, nel celebrare i dieci anni della morte
di Craxi, accampa precisamente tale pretesa: «È arrivato il momento – dice - di
guardare alle
vicende di Craxi con gli occhi della storia».
Il ricordo degli anni di Bettino Craxi non è l’unico esempio di memoria tradita.
Anche il terrorismo
italiano è ricordato con metodi poco corretti, anche la storia del fascismo o di
Salò. A partire dal
momento in cui la memoria è maneggiata alla stregua di domestica, quel che
finisce col prevalere è
una visione dei mali italiani radicalmente distorta. Il male che la
coscienza impone di esaminare non
fu un male in sé: in fondo, lo divenne perché vinto dalla Storia. In molti casi
fu perfino nobile, non
meno del suo avversario. Il conflitto non è fra ragione e torto, fra
giustizia e crimine, ma fra chi ha
vinto e chi ha perso. In Italia si è ragionato così su Salò, e anche sul
terrorismo. Prima di rientrare
da Parigi a Roma per presentarsi alla giustizia, Toni Negri sostenne che il
terrorismo era «superato
perché vinto», e per questo non era più «di attualità». La lotta armata di per
sé non era
condannabile.
Lo stesso accade per la memoria di Craxi. La sua battaglia
politica è considerata grande e bella, se
non fosse per Mani Pulite che gli strappò la vittoria e macchiò questa compatta
bellezza. Ovvio, in
queste condizioni, che le colpe siano tutte esterne al soggetto («L’inferno,
sono gli altri», dice
Sartre) come spesso succede nella memoria dei vinti che non guardano
dentro di sé, perché inebriati
dall’esperienza della vittima. La memoria selettiva e ancillare ci
restituisce in tal modo un Craxi
grande statista, soprattutto un modernizzatore, il cui nobile progetto fallì a
causa, essenzialmente,
dei magistrati. Per riscoprirlo è raccomandato non solo di separare la politica
dai fatti di corruzione,
ma di estromettere i fatti di corruzione lasciando che resti, del leader, solo
la luce. Le inchieste
giudiziarie cadono nelle ombre del corpo politico emiplegico. Nietzsche parlava
di memoria
antiquaria, che ammobilia «con pietà o furia collezionista» un nido familiare
chiuso, impenetrabile
dall’esterno, conservatore del passato.
Altra cosa la memoria critica, che guarisce
trasformandoci: memoria faticosa, perché gli uomini
tendono a «darsi un passato da cui si vorrebbe derivare, in contrasto con quello
da cui si deriva».
Senza dubbio il leader socialista fu un politico con encomiabili progetti
iniziali: unificare le sinistre,
rafforzando la componente socialista dell’unione e banalizzando, alla maniera di
Mitterrand,
l’ingresso dei comunisti nel governo; liberare sinistre e sindacati da formule
errate come la scala
mobile; legare il Psi al dissenso nei paesi comunisti. La sua opera di
modernizzatore fu, secondo
molti, la sua più grande virtù. Modernizzazione che tuttavia riuscì solo in
parte. Che fu a un certo
punto abbandonata, autonomamente. Che si spezzò non solo perché fortemente
avversata dai
comunisti ma perché Craxi smise di volerla, prepararla, attuarla.
L’azione di Craxi fu in realtà un singolarissimo impasto di intuizioni giuste e
coraggiose, di spregio
profondo della politica, di intreccio tra politica e mondo degli affari, di uso
spregiudicato di mezzi
finanziari illeciti. La corruzione non fu un dettaglio inessenziale di
tale azione ma un suo torbido
elemento costitutivo. Era moderno il politico che si crea spazi di
potere con l’aiuto di potentati
economici, e in cuor suo ritiene inefficace la via virtuosa. Il motto degli
esordi craxiani fu: primum
vivere, prima di tutto urge vivere e sopravvivere. In un’intervista a
Eugenio Scalfari, il 3-5-90 su
Repubblica, Craxi non nasconde la crisi abissale della democrazia e dei partiti:
la società italiana si
era irrobustita per conto proprio, dice, mentre il ceto politico era restato una
chiusa corporazione,
incapace di rinnovarsi. E a Scalfari che gli chiede perché, Craxi replica:
«Non ci sono più ideali, si
gestiscono interessi».
In fondo non sono diversi i due discorsi tenuti alla Camera
durante Mani Pulite, il 3 luglio ’92 e il 9
aprile ’93. Due discorsi che descrivono la corruzione di un intero sistema
politico. Questo dice la
chiamata di correo del ’92: «Tutti sanno che buona parte del finanziamento
politico è irregolare o
illegale.(...) Non credo che ci sia nessuno in quest’aula (...) che possa
alzarsi e pronunciare un
giuramento in senso contrario a quanto affermo: presto o tardi i fatti si
incaricherebbero di
dichiararlo spergiuro». Nessuno si alzò, e l’atto mancato resta la
vergogna dei politici e di una
classe dirigente. Una vergogna che in assenza di memoria critica s’è estesa.
A Scalfari, Craxi aveva
detto: «Non ci sono più ideali, si gestiscono interessi». Oggi, gli interessi
particolari sono diventati
ideali e il loro conflitto con la politica una cosa normale per tanti.
La modernizzazione di Craxi fallì dunque molto prima di Mani
Pulite, a causa del malaffare in cui i
partiti, compreso il suo, nuotavano. Fallì perché il Pci si oppose per anni
all’alternanza, preferendo
compromessi con la Dc che preservavano lo status quo. Fallì per
l’immobilità in cui Craxi stesso
sprofondò: il primum vivere divenne brama del vivere per vivere, di
arraffare frammenti del
presente e del potere, di non progettare più nulla.
Il socialismo italiano naufragò per colpa dei socialisti, non dei magistrati: e
naufragò perché più di
altri aveva suscitato sì vaste attese.
Perfino alcuni successi del capo socialista andrebbero narrati in maniera meno
edulcorata,
censurata. Sigonella non fu un atto di autonomia verso l’America, ma la misera
messa in libertà
d’un gruppo terrorista (i palestinesi di Abu Abbas) che aveva ucciso
proditoriamente, sull’Achille
Lauro, un anziano americano in sedia a rotelle, Leon Klinghoffer, solo perché
ebreo. Anche in
economia Craxi non fu modernizzatore. Lo spiega bene Salvatore Bragantini, sul
Corriere del 14
gennaio: sotto la guida sua e dei successori «il nostro debito pubblico è volato
dal 60% al 120% del
Pil; (...). Nell’escalation del debito ebbe il suo bel peso l’aumento dei
costi delle opere pubbliche
dovuto alle tangenti, scoperte grazie a Mani Pulite».
Oggi, censurare tanta parte del passato è utile
soprattutto a Berlusconi e alla sua offensiva contro la
giustizia. Se il duello è tra vincitori e vinti, e non tra buongoverno e
governo corruttibile, si tratta di
contrattaccare e vincere finalmente la guerra. Oggi ci si difenderà dai
processi, ma restando al
potere anziché fuggendo come latitanti. Stefania Craxi lo ha detto chiaramente,
il 3 gennaio alla
televisione: «La storia di Craxi si ripete con Berlusconi. Gli italiani allora
non credettero a Craxi,
ma a Berlusconi, oggi, credono». A questo serve la politica della memoria in
Italia: a perpetuare la
melma in cui ci troviamo, senza mai cominciare l’esame di coscienza che da essa
ci libererebbe.
Barbara Spinelli La Stampa 24 gennaio 2010