La memoria come risorsa antifascista

È proprio vero che i fatti della seconda guerra mondiale non meritano che l'oblio? E' questa la domanda che si è tentati di porsi di fronte alle tante manifestazioni di insofferenza che accompagnano la riesumazione di episodi editi o inediti relativi a questo evento epocale con i suoi caratteri di scontro frontale nella lotta per la civiltà, nel momento in cui invece il fronte della memoria sembra ricompattarsi nell'appagamento della riconciliazione nel ricordo della fine della prima guerra mondiale. Il ricordo della guerra più lontana non sembra soffrire le lacerazioni che la guerra più vicina ancora evoca. Le prese di posizione ambigue degli esponenti dell'attuale maggioranza rendono lo stato della situazione particolarmente confuso. Approssimandosi il settantesimo anniversario delle leggi razziste del fascismo e il giorno della memoria possiamo prevedere che nella caterva di dichiarazioni cui andiamo incontro queste contraddizioni raggiungeranno l'apice dell'esasperazione.
Dal mese di aprile in poi non è passato quasi un giorno che non si siano succedute prese di distanza da atti della politica fascista (precipuamente la persecuzione degli ebrei) e contemporaneamente affermazioni e gesti di riabilitazione parziale o totale del regime del ventennio e della sua continuazione nella R.S.I. Ne viene messa in evidenza da una parte l'incerta identità democratica di una parte rilevante del ceto politico del centro-destra, ma dall'altra anche l'indissociabile legame che esso ha con le sue radici e quindi la sua difficoltà a disfarsene, posto che lo voglia. Per chi si è nutrito sino all'altro ieri dei simboli e dei teoremi di un aristocratico della razza come Evola è impresa ardua riciclarsi sul terreno dell'antirazzismo e della democrazia, come è dimostrato dalla quotidianità politico-culturale.
Si potrà dire che sviluppando argomentazioni del genere continuiamo a condurre una battaglia di retroguardia. Siamo consapevoli dei rischi che corriamo, ma è pur sempre meglio condurre una battaglia di retroguardia che non affrontare nessuna battaglia. Siamo anche consapevoli che di fronte alla potenza della tirannia mediatica che è, almeno da noi, lo strumento formatore e livellatore delle coscienze e spesso l'unica fonte d'informazione per un largo pubblico, le nostre parole sono povera cosa. Ma sono convinto che spetti ai superstiti della mia generazione coltivare il filo della memoria che tiene unite esperienze così lontane alla sensibilità delle generazioni più giovani. Certo, per un corrispondente della Faz che da sempre fa il diffamatore della resistenza e dell'antifascismo, sarebbe molto più comodo un Presidente della Repubblica che si militasse a ricordare in maniera neutra le vittime della guerra senza emettere giudizi sulla natura delle forze in campo e senza quindi rischiare di attualizzare confronti di valutazioni, anche se dovrebbe sapere che oggi anche a casa sua sulla guerra nazista non esistono più i tabù di 20 o 30 anni fa.
Il discorso su una identità europea oggi è certamente un discorso complesso e non suscettibile di un unico sbocco, perché rispecchia le divisioni che l'Europa ha attraversato negli ultimi decenni e lacerazioni politico-culturali che persistono tuttora. Ma buona parte dell'Europa, dall'Atlantico ai territorio dell'ex Unione sovietica ha conosciuto l'esperienza del Nuovo ordine nazista e fascista. Della formazione di una identità europea fa parte anche questa esperienza, lo vogliano o no ammettere tutti gli odierni stati soggetti del panorama europeo e di questa esperienza fanno parte integrante, perché hanno accomunato le popolazioni europee sotto un unico destino di breve durata ma di radicale intensità, fenomeni come la Shoah ma anche i colossali sconvolgimenti demografici e sociali provocati da immani spostamenti forzati di popolazione. Oggi si tende, e giustamente, a studiare gli spostamenti avvenuti a seguito della guerra, ma come dimenticare le decine di milioni di uomini e donne sradicate forzatamente dalle proprie case in nome del Nuovo ordine europeo? Al di là della shoah, i deportati per il lavoro forzato o per rappresaglia per la partecipazione alla resistenza («Notte e nebbia») o per gli scioperi operai contro l'economia di guerra nazista, cui si devono aggiungere i milioni di militari polacchi, francesi, sovietici, italiani e di altre nazionalità catturati e trattati al di fuori di ogni tutela prevista per i prigionieri di guerra, sono stati tra i testimoni viventi della tragedia che ha travolto e devastato l'Europa. Oggi non c'è paese d'Europa in cui non siano presenti i superstiti di questa immensa schiera di deportati, vittime di questo prodotto della guerra totale, non certo sconosciuto al primo conflitto mondiale ma diventato aspetto centrale del secondo conflitto.
E' possibile dimenticare tutto questo? Il quesito è meramente retorico, se solo si considera la massa enorme di individui, uomini e donne, che la deportazione ha messo in movimento in Europa. Se pensiamo alla difficoltà con la quale nei primi anni del dopoguerra chi era sopravvissuto alla deportazione riusciva a farsi ascoltare e quindi alla reticenza di raccontare esperienze cui spesso non si voleva prestare orecchio, l'esplosione di racconti dagli anni '80 in poi fa concludere che ci troviamo invece in presenza di una ipertrofia di memorie, cui non coincide necessariamente un adeguato indice di memoria collettiva. Tuttavia i germi diffusi nelle diverse società nazionali dalla consapevolezza degli ex deportati di avere vissuto un tratto irripetibile di percorso comune ne ha fatto dei buoni europei e messaggi insostituibili di un avvenire di pace. Da noi Primo Levi è stato non l'unico ma forse l'esempio più alto di questo tipo umano; altrove, da Semprun a Langbein, la voce degli ex deportati ha anticipato aspirazioni di pace contro gli interessi imperialistici delle potenze.
Che senso ha ricordare oggi tutto questo? In un momento di grandi incertezze politico-culturali, di opacità di pensiero e di prospettive, l'elaborazione della memoria è una risorsa. L'apprendere dal passato non può essere mai un'operazione passiva, non può essere l'attesa della ripetizione di circostanze che non ritorneranno mai come prima, ma è uno strumento prezioso per affinare la sensibilità e l'intelligenza a sapere cogliere anche nel nuovo (o nell'apparente nuovo) ciò che di vecchio si ripresenta sotto spoglie inedite.

Enzo Collotti      Il manifesto 08/11/08

 

  

65 anni di silenzio

Da Cefalonia a Marzabotto, i massacri di nazisti e repubblichini sono ancora «casi» senza risposta

Sessantacinque anni. Sessantacinque anni di attesa. Di silenzi. Di angosce. Di ingiustizia. Sessantacinque anni: tanti ne sono passati da quando i nazisti, seguiti a ruota dai repubblichini, dettero inizio ai massacri. Forse i primi due, dal 20 al 21 settembre del '43, furono compiuti a Cefalonia e a Matera, la città antesignana a insorgere contro l'invasore. E poi Civitella Val di Chiana. E poi Capistrello. E poi Sant'Anna di Stazzema. E poi Fivizzano. E poi Marzabotto. E poi, e poi, e poi... Una sfilza di altre atrocità. Un registro degli orrori che elenca ben 2.274 voci di reato. Sono omicidi a danno di bimbi, alcuni in fasce, altri mai nati perché cavati dai ventri materni e usati come bersagli. Donne, vecchi. Una recente letteratura, chiamiamola così, ha cercato di rovesciare la storia versando lacrimucce sulla sorte dei vinti, facendo finta di dimenticare quel che fecero durante quella nobile gara, tra SS e bande nere, a chi fosse il più feroce. E quanti furono i morti innocenti, i civili che non avevano commesso reati, e i militari che avevano fatto il loro dovere? E chi lo sa? Quindicimila. Ventimila. Trentamila. La Commissione parlamentare d'inchiesta, nata dopo una difficilissima battaglia contro la netta ostilità del centro destra e la semi indifferenza del centro sinistra non si è occupata di questo aspetto. È vero, non faceva parte dei compiti assegnati, ma non ci sarebbe voluto nulla a muoversi anche in questa direzione. Il Parlamento ha taciuto, e anche grossolanamente falsato come poi spiegherò. Le grandi associazioni hanno addirittura cestinato le proposte fatte in questo senso che pure avevano ottenuto il consenso della base. Non ne conosco il motivo esatto. Vado a naso: una certa pigrizia mentale, una massiccia dose di queta non movere, il timore parossistico di fare azione non gradite agli eredi del vecchio pci che aveva cercato di chiudere definitivamente e sconsideratamente con i fascisti che poi, invece, ci ritroviamo al governo... Fate voi, ma questi sono i fatti. Per ordine del centro destra, con una specie di dolo-lodo Alfano, tutto finì nel nulla tra il 1946 e il '47. Solo 18 processi furono celebrati in quei 5 decenni, e di risibile importanza, a eccezione di quello a Walter Reder per la strage di Marzabotto (fu condannato all'ergastolo, ma poi fu graziato); quello a carico dei criminali nazisti di Rodi, rei di scientifici massacri (ebbero pene pesantissime, ma all'indomani della condanna varcarono silenziosamente i nostri confini dato che erano stati graziati dal presidente Luigi Einaudi); quello al maggiore delle SS Josef Strauch, uno dei sedici responsabili della strage delle paludi di Fucecchio, o padule come dicono i toscani, dove furono uccisi 184 civili (i magistrati militari gli comminarono tre anni, con tutte le attenuanti possibili e immaginabili, compresa quella di aver combattuto a fianco degli italiani nella guerra fascista).

Questi i fatti incontestabili presi in esame dalla Commissione parlamentare che lavorò per quasi due anni, dal 2004 in poi. Centro sinistra e centro destra si divisero solo nell'orrido finale con due distinte relazioni. Il centro sinistra rimase nel vago. Gli altri, i compari dei predecessori che avevano creato l'armadio, furono, invece, assai precisi e calzanti. La loro relazione fu affidata a Enzo Raisi, deputato di An, uomo indubbiamente in preda ai geni e ai fumi del passato. In quelle carte è scritto testualmente che quei fascicoli rimasero in panne per «noncuranza» dei magistrati militari. Non viene spiegato nelle centinaia di pagine della relazione quali siano i motivi di questa afflizione mentalcorporea. Ma c'era un grosso scoglio da superare: quel carteggio tra due ministri di un governo Segni, futuro presidente della Repubblica. Gaetano Martino, ministro degli Esteri e Paolo Emilio Taviani, ministro della Difesa (liberale il primo, democristiano il secondo) si scrivono per trovare il modo per affossare l'inchiesta sull'eccidio delle migliaia di militari italiani trucidati a Cefalonia dopo la loro resa. Il primo propone, il secondo acconsente. Al magistrato militare che sollecitava un parere, allora la categoria era soggetta al potere politico, rispondono di lasciar perdere. Era un ordine e fu eseguito. Ma il brillante Raisi trova il modo di cavarsela, prendendo a pretesto la testimonianza del divino Giulio, al secolo Andreotti, che aveva definito «personale», nella sua testimonianza in Commissione, quello scambio di lettere: scrive, dice, sostiene che questa è la pura, sacrosanta verità.
Dopo la scoperta dell'armadio della vergogna, la figlia del capitano Francesco De Negri, Marcella, si rivolse alla magistratura ordinaria che dopo una serie di palleggiamenti le fece sapere che ormai la questione era chiusa dal 4 giugno 1960, da quando, cioè, il giudice istruttore militare Carlo Del Prato aveva prosciolto per non aver commesso il fatto il generale Hubert Lanz da cui dipendevano gli assassini di Cefalonia. Marcella De Negri, a proprie spese e senza il minimo sostegno delle istituzioni, si rivolse, allora, alla giustizia tedesca, dato che a Monaco di Baviera era sotto processo il sottotenente Otmar Muhlhauser, comandante dei plotoni di esecuzione che fucilarono davanti alla Casetta Rossa 137 Ufficiali della divisione Acqui. Costui, interrogato a suo tempo, aveva dichiarato: «Tra noi ufficiali si parlava degli italiani solo come traditori. E i traditori meritano un'unica risposta, l'esecuzione». Il procuratore August Stern prese per buone queste parole: lasciò tranquillo il fucilatore e si unì al coro degli «italiani traditori». Marcella si appellò, fece ricorsi, ma l'esito non cambiò. Nell frattempo scoprì che il procuratore militare di Roma, Intelisano, non aveva aperto nessuna inchiesta perché «la stavano facendo i colleghi tedeschi». Il 16 agosto 2007 Marcella ha inviato una lettera al presidente della Repubblica, pubblicata dal manifesto. Intelisano le ha risposto con ampie rassicurazioni: «Riapriremo il caso». Ma non c'è niente da «riaprire, bensì da aprire. E su questo aspetto è stata aperta un'indagine dal Procuratore generale militare presso la Cassazione, Alfio Massimo Nicolosi. Intanto Marcella per abbreviare i tempi, quel Muhlhauser ha 88 anni, fa tradurre e autenticare a proprie spese, tutti gli atti della magistratura tedesca. Ma la chiusura delle indagini viene inspiegabilmente rinviata di mese in mese. Il Muhlhauser sopravvivrà, chissà, arriveremo ai 70-80 anni di attesa.

Franco Giustolisi      Il manifesto 08/11/08