La maschera del razzismo
Purtroppo per noi - e per la Corte di Cassazione - il razzismo contemporaneo non
si presenta nelle forme note e stereotipe del razzismo biologico ed è, dunque,
più difficile da riconoscere e da combattere. Eppure, esso tende a radicarsi in
idee e pratiche comuni, di ogni giorno, che quindi conquistano un consenso a cui
il razzismo, esplicito e rivolto ad una supposta diversità razziale, non può più
ambire almeno in Occidente. Allo stesso tempo esso si alimenta della crescente
paura di perdere le proprie posizioni e tende a legittimarsi con un richiamo al
generico principio di legalità, che però dimentica quanto tale principio debba
avere valore universale e postulare un altrettanto sacro principio di
uguaglianza sostanziale di ogni persona di fronte alla legge.
Insomma, non accadrà più che un qualche ministro si presenti al Capo dello Stato
per fargli firmare le “leggi razziali” come avvenne settanta anni fa proprio qui
in Toscana, a San Rossore, per le leggi antisemite di Mussolini.
Ci si appellerà oggi, piuttosto, ad un comune sentire che spinge un ministro ad
azioni di dubbia legittimità dal chiaro contenuto discriminatorio, ma mascherate
da “sicurezza” e “legalità”, come avviene per la schedatura etnica dei rom. Ma
non per questo sarà un razzismo meno pericoloso. Esso oggi si caratterizza in
tre forme:
- In primo luogo c’è il razzismo culturale o etnocentrismo, cioè l’atteggiamento
discriminatorio che nasce dalla difesa della propria cultura e stile di vita e
dal rifiuto di quelli altrui. La pretesa di superiorità, purezza e integrità
della propria cultura è sempre preceduta da una dichiarazione antirazzista e si
appella a valori para-giuridici che vorrebbero far coincidere i diritti di
cittadinanza con l’appartenenza “culturale” ad una comunità: «io non sono
razzista, ma i rom per loro tradizione rubano e quindi non possono essere parte
a pieno titolo della nostra comunità, ergo possono essere discriminati».
- La seconda forma è il cosiddetto razzismo addizionale che fonda lo stigma
discriminatorio sulla somma tra identificazione fisica della “diversità” e
fattori di allarme sociale. Esso discrimina un gruppo sulla base di una vera o
presunta minaccia che esso porta dall’esterno sulla comunità. Sono processi che
trasformano il fatto specifico in figura sociale: quel lavavetri che ha
aggredito l’automobilista o il rom colto a rubare diventano i campioni
dell’intera categoria, tutta pericolosa e ladra.
- In ultima istanza c’è quello che definirei il razzismo concorrenziale, che
nasce dal timore di perdere il controllo simbolico o materiale sul territorio e
sulle sue risorse. È il caso dei venditori ambulanti abusivi dove,
evidentemente, la concorrenza non è fra le merci, ma su beni simbolici (come ad
esempio il prestigio o l’immagine).
Questo razzismo moderno è fra noi e sta dilagando nell’opinione pubblica e negli
atti - siano essi piccoli o grandi - dell’amministrazione pubblica in un
circuito perverso che ci porta in una società che esclude e discrimina senza
quasi che ce ne accorgiamo.
Per questo, bene ha fatto la Regione Toscana a dedicare ad un tema così attuale
e decisivo l’ottava edizione del Meeting di San Rossore. Siamo di fronte ad un
tema “ultimo”, i cui confini sono difficili da percepir. Ma dobbiamo avere il
coraggio e l’onestà di guardare anche in noi stessi per capire che il razzismo
contemporaneo si annida nelle pieghe dell’ossessione della sicurezza. E che,
come tale, incanta anche parti e dirigenti della sinistra.
Simone Siliani L'Unità Firenze 10.7.08