La lunghissima estate del `45
La bomba ha 60 anni Lo sterminio delle donne e degli uomini di Hiroshima e Nagasaki non è stato un modo per finire subito la guerra contro un nemico ormai vinto e in cerca di resa ma un crimine contro l'umanità rimasto impunito che anticipa la politica di George Bush


Da sessanta anni, ad ogni anniversario dello sterminio delle donne e degli uomini di Hiroshima e Nagasaki, la domanda a cui si tenta di rispondere è: «perché?». Oggi, grazie all'ampia documentazione a disposizione, a questa domanda si può rispondere senza particolari incertezze. Ma non solo. La domanda, da generico sgomento di fronte all'orrore che quell'avvenimento continua a suscitare, può essere meglio formulata e articolata: perché il presidente americano Truman autorizzò un crimine contro l'umanità dopo che il Giappone si era arreso? E come è stato possibile che questo crimine contro l'umanità sia rimasto impunito?

La bomba: inutile per la resa del Giappone

La sequenza degli eventi puo essere ricostruita nel dettaglio. La Germania ha firmato la resa l'8 maggio 1945 e anche il Giappone è ormai pronto ad arrendersi: non ha più un apparato militare offensivo con «milioni di persone senza casa e le città distrutte nella percentuale del 25-50%» (dichiarazione dell'8 luglio 1945 dell'Us-British Intelligence Committee). Ciò che accade nel mese di luglio è particolarmente importante: è una storia in cui si intrecciano i rapporti tra Usa e Urss per il controllo del Sud Est asiatico, la volontà degli scienziati di sperimentare la bomba atomica, la decisione di sterminio di un presidente americano, il destino della popolazione inerme di due città giapponesi.

Documenti, a lungo rimasti segreti e censurati, mostrano che la resa del Giappone avviene il 12 luglio quando l'imperatore giapponese, attraverso il suo primo ministro Togo, invia un telegramma all'ambasciatore Sato a Mosca in cui chiede alla Russia (che non ha ancora formalmente dichiarato guerra al Giappone) di fare da intermediaria per trattare la resa. L'imperatore è per una resa incondizionata e chiede solo che questa non comporti la sua destituzione per salvaguardare la «sacralità» della sua figura (condizione, del resto, che verrà accettata dal governo americano, ma solo dopo aver sperimentato le due bombe atomiche). Truman è a conoscenza della resa dell'imperatore, come risulta dal suo diario autografo (reso pubblico dopo gli anni `70) in cui scrive il 18 luglio: «Stalin aveva messo a conoscenza il Primo Ministro del telegramma dell'imperatore giapponese che chiedeva la pace. Stalin mi disse inoltre cosa aveva risposto. Era fiducioso. Credeva che il Giappone si sarebbe arreso prima dell'intervento russo». Da notare che sempre nello stesso diario Truman aveva annotato il giorno prima che «Stalin dichiarerà guerra al Giappone il 15 agosto. Quando avverrà, sarà la fine per i giapponesi».

Il 16 luglio, intanto, era stato fatto il primo test della bomba atomica nel New Mexico e Truman era stato ufficiamente informato che il risultato del test era positivo: la bomba era pronta e poteva essere sganciata sul Giappone. La fine della guerra e la resa del Giappone sono previste entro poche settimane (tra il 18 luglio e il 15 agosto). Ciononostante, la decisione di Truman è quella di usare la bomba, distruggere due intere città giapponesi e condannare ad una morte atroce uomini donne, bambini inermi. Ancora una volta la domanda è: perché?

La bomba: per dominare il dopoguerra

La risposta oggi convergente da tutte le fonti è che ciò ha influenzato la decisione di Truman non era un temuto prolungamento della guerra (ormai di fatto terminata) ma il dopoguerra: se l'Urss avesse dichiarato formalmente la guerra al Giappone il 15 agosto, le sue armate avrebbero potuto entrare prima di quelle americane nel Giappone arreso ed in ogni caso, nel dopoguerra, gli Stati uniti avrebbero dovuto spartire con l'Urss la loro sfera di influenza nel Sud Est asiatico. Si tratta di una ipotesi confermata da una osservazione di Winston Churchill, il 23 luglio 1945: «E' chiarissimo che al momento gli Stati uniti non desiderano la partecipazione russa alla guerra con il Giappone». Nella stessa direzione vanno altre testimonianze. Nel diario di James V. Forrestal (ministro della marina Usa) si può leggere che «il segretario di stato Byrnes aveva una gran fretta di concludere la questione giapponese prima che i russi entrassero in gioco». Il fisico Leo Szilard (che firmò il 7 luglio del 1945 la prima petizione contro l'utilizzo della bomba atomica) nel 1948 ha scritto: «Mr. Byrnes non argomentò che l'uso della bomba atomica contro le città del Giappone fosse necessario per vincere la guerra. Egli sapeva, come anche tutto il resto del governo, che il Giappone era battuto sul campo. Però Byrnes era molto preoccupato per la crescente influenza della Russia in Europa». Anche Albert Einstein (New York Times, 14 agosto 1946) affermò che nella decisione di gettare le due bome atomiche la causa principale era stato «il desiderio di metter fine con ogni mezzo alla guerra nel Pacifico prima della partecipazione della Russia. Io sono certo che se ci fosse stato il presidente Roosevelt questo non sarebbe accaduto. Egli avrebbe proibito un'azione del genere». Sembrerebbe, dunque, che ci troviamo di fronte ad un crimine contro l'umanità come «misura preventiva».

La bomba: chi era contro e chi a favore

Contro l'uso dell'atomica si dichiararono le massime autorità militari. Dice il generale Dwight D. Eisenhower: «Ero convinto che il Giappone fosse già sconfitto e che il lancio della bomba fosse del tutto inutile... In quel momento il Giappone stava cercando un modo per arrendersi il più dignitosamente possibile. Non era necessario colpirli con quella cosa spaventosa». E dello stesso tipo sono le dichiarazioni dell'ammiraglio William Leahy, capo di stato maggiore: «I Giapponesi erano già sconfitti e pronti alla resa. L'uso di questa arma barbara contro Hiroshima e Nagasaki non ci fu di nessun aiuto nella nostra guerra contro il Giappone. Nell'usarla per primi adottammo una norma etica simile a quella dei barbari nel medioevo. Non mi fu mai insegnato a fare la guerra in questo modo, e non si possono vincere le guerre sterminando donne e bambini». Leahy individua anche il gruppo che è stato più a favore: «Gli scienziati ed altri volevano sperimentarla, date le enormi somme di denaro che erano state spese nel progetto: due miliardi di dollari». Quindi, a parte il limitato gruppo dei fisici che era sulle posizione di Szilard e Einstein, c'è un gruppo consistente di attori legati al costosissimo progetto Manhattan che desidera «rendere produttivo l'investimento».

Si arriva così al 25 luglio, quando il Comitato presieduto da Truman e Byrnes (con anche la presenza del rettore dell'Università di Harward James Conant, invitato al Comitato «a nome della società civile», che vergognosamente appoggia lo sterminio) ordina al generale Caarl Spatz dell'Air Force la «missione atomica» su quattro possibili obiettivi (Hiroshima, Kokura, Niigata e Nagasaki) indicando una data provvisoria (il 3 agosto).

La prima bomba atomica scenderà sul centro di Hiroshima il 6 agosto alle ore 8,15 del mattino quando le scolaresche vanno a scuola e le donne e gli uomini al lavoro; la seconda scenderà il 9 agosto alle 11,02 nel quartiere più povero (prevalentemente cattolico) di Nagasaki (tra le due bombe arriva, ormai ininfluente, la dichiarazione di guerra della Russia al Giappone).

Per documentare l'entusiasmo che l'annuncio di questo crimine contro l'umanità riceve negli Stati uniti si può ricordare la testimonianza del fisico Sam Cohen sulla sera del 6 agosto 1945: «Quella sera, Oppenheimer non passò dall'ingresso laterale, fece piuttosto una entrata trionfale come Napoleone al ritorno di una grande vittoria. Mentre entrava, tutti - a eccezione forse di una o due persone - si alzarono in piedi applaudendo e battendo i piedi; erano veramente orgogliosi che ciò che avevano costruito avesse funzionato ed erano orgogliosi di se stessi e di Oppenheimer».

La bomba: come fu mistificata

Nonostante l'euforia, Truman si rende conto che non può rivelare al mondo che ha ordinato un crimine contro civili senza che ve ne fosse bisogno per finire la guerra. Due sono le strategie utilizzate: la menzogna e la censura. La prima menzogna (quella con le gambe corte) è detta da Truman alla radio il 9 agosto quando afferma che «la prima bomba atomica è stata sganciata su Hiroshima, una base militare». La seconda menzogna (quella con le gambe lunghe) serve a nascondere che il Giappone aveva già dichiarato la resa: la bomba è «giustificata» dal numero di morti americani evitato. Come affermò Truman il 15 dicembre 1945: «A me sembrava che un quarto di milione dei nostri giovani uomini nel fiore degli anni valesse un paio di città giapponesi».

Viene poi fatta scattare una durissima censura sia negli Stati uniti che in Giappone. Ad Eisenhower viene inviato il 2 aprile 1946 un memorandum in cui si ordina: «Da nessuno dei documenti destinati alla pubblicazione deve risultare che la bomba atomica fu lanciata su un popolo che aveva già cercato la pace» e nel 1946 venne approvato l'Atto dell'energia atomica che prevedeva l'ergastolo e la pena di morte per chi divulgasse «documenti protetti da segreto con lo scopo di danneggiare gli Stati uniti». In Giappone il silenzio stampa e la censura di qualunque commento critico all'uso dell'atomica furono ferrei fino al 1949.

Le due bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki non hanno segnato, dunque, la fine della seconda guerra mondiale ma l'inizio di una nuova era. Quella che usa lo sterminio come misura preventiva, separa l'economia e la politica dall'etica, difende la «neutralità» della ricerca scientifica, legittima la menzogna e l'impunità per chi ha il potere. Il neoliberismo alla Bush è stato anticipato sessanta anni fa da Harry Truman.

 

VITTORIO CAPECCHI    Il manifesto 04/7/05

 

 

 

Il genocidio accettabile
La bomba ha 60 anni Già pochi mesi dopo Hiroshima e Nagasaki ogni critica venne messa a tacere negli Usa, in nome della verità ufficiale: il lancio delle atomiche aveva «permesso il salvataggio di un milione di vite americane». Una verità che ancora oggi è tradimento discutere

Lo sterminio di massa, fino al genocidio di altri popoli, è accettabile se compiuto dagli Stati uniti? Come il fantasma di Banco in Macbeth, il dilemma rifiuta di andarsene, riappare periodicamente nella discussione pubblica, dilania le coscienze di molti americani. Esso è stato posto con chiarezza da Robert Gallucci nel suo intervento sul numero di questi giorni del Bulletin of the Atomic Scientists, dedicato al sessantesimo anniversario di quel tragico 6 agosto 1945. «E' accettabile - si chiede Gallucci - commettere un'azione che ucciderà decine di migliaia, o più, di civili (...) con l'obiettivo di ottenere un effetto sulla capacità del nemico di condurre la guerra e, più importante, per distruggere la volontà del nemico di proseguire il conflitto? In pratica, la risposta degli Stati uniti è stata affermativa, bombardando Tokyo e Dresda (prima di Hiroshima e Nagasaki)».

Maggioranza indifferente

A giudicare dal modesto numero di articoli usciti in questi giorni sulla stampa americana, e dal carattere convenzionale dei loro contenuti, la drammaticità di questo interrogativo etico lascia indifferente la maggior parte dei giornalisti e dei politici, se non quando qualcuno cerca di introdurre la questione in un forum accessibile a tutti i cittadini e non ai soli specialisti. Finché se ne discute sul Bulletin, o nei libri di Gar Alperovitz, la macchina dell'informazione sonnecchia, ma quando il mito dell'innocenza americana viene messo in discussione le reazioni sono violentissime. Il militarismo di Washington non tollera critiche o dubbi nemmeno 60 anni dopo i fatti. L'idea che gli Stati uniti sono un grande paese proprio in quanto possono discutere degli errori, e anche dei crimini, del proprio governo deve cedere il passo a un consenso prefabbricato.

Prendiamo, per esempio, l'intervento di Thomas Donnelly, sempre sul Bulletin. Donnelly, un rappresentante dell'American Enterprise Institute, un think tank conservatore, cita Goodbye Darkness, le memorie dello storico William Manchester sulla guerra nel Pacifico, per sostenere la tesi che, di fronte alla prospettiva di un'invasione del Giappone, con milioni di morti, «You thank God for the atomic bomb». Donnelly continua ricordando il rispettato critico Paul Fussell, che intitolò precisamente Thank God for the Atom Bomb una raccolta di saggi: nell'agosto 1945 era un giovanissimo tenente che aveva combattuto sul fronte europeo e sarebbe stato trasferito nel Pacifico se la guerra non fosse finita.Nel suo intervento, scritto nel 1987, Fussell ha un'unica argomentazione: lui c'era. Se la guerra fosse proseguita, forse quarant'anni dopo non sarebbe stato vivo per scriverne, come accadde agli otto aviatori americani decapitati dai giapponesi, o ai marinai del sommergibile Bonefish, affondato nei sei giorni di intervallo tra il bombardamento di Nagasaki, il 9 agosto, e l'annuncio dell'armistizio, il 15. Thank God for the Atom Bomb insiste sull'immenso sollievo, sulla gioia indescrivibile di scoprire che «era finita».

Ma la felicità di giovanissimi soldati al fronte è un argomento valido nel dibattito sulla moralità di Hiroshima? Fussell e Manchester danzarono nelle strade, abbracciarono sconosciuti, baciarono le ragazze e ringraziarono Iddio, come decine di milioni di persone in Italia, Francia, Russia, Inghilterra, Germania e altrove. Ma la gioia collettiva di militari e civili lontani dal Giappone può giustificare le carni a brandelli, le viscere sparse sul terreno, l'incenerimento immediato di donne e bambini?

No, non poteva e non può: i marines nel Pacifico, esattamente come i giovanissimi soldati sovietici a Berlino, erano totalmente all'oscuro della situazione militare e diplomatica, del fatto che il Giappone si sarebbe probabilmente arreso entro poche settimane e che tutto dipendeva dalle condizioni di pace proposte. La richiesta degli Alleati di una «resa incondizionata» rendeva necessario un chiarimento: essa permetteva ai giapponesi di poter conservare l'imperatore alla testa del paese, o no? Se questa garanzia fosse stata data (come poi effettivamente avvenne) il Giappone avrebbe accettato il cessate il fuoco, altrimenti avrebbe combattuto fino all'ultimo uomo. La vita o la morte di Fussell e dei suoi camerati dipendeva da scelte politiche dei governi alleati, perché la situazione militare sul terreno era già chiara per tutti. Su questo, ormai i documenti sono disponibili e molti storici hanno lavorato.

Gli scienziati erano coscienti

Nell'anniversario di Hiroshima è più che mai necessario ricordare che la parola «guerra» non risolve automaticamente tutti i problemi, non fornisce giustificazioni per ogni atto: la nozione di «crimini contro l'umanità» fu inventata esattamente per questo, alla fine della seconda guerra mondiale. Scienziati e militari americani che avevano partecipato alla costruzione, e alla decisione di usare, la bomba atomica erano perfettamente coscienti del fatto che i bombardamenti su Dresda, Tokyo, Hiroshima, Nagasaki erano atti che potevano essere giudicati come crimini di guerra e tali rimangono, a meno di non sostenere che uomini mortali e fallibili sono in diritto di arrogarsi decisioni sulla soluzione finale del problema costituito da altri esseri umani, siano un gruppo etnico o gli abitanti di una particolare città. Uso questa espressione, soluzione finale, per sottolineare che non basta avere una Costituzione, e un presidente eletto ogni quattro anni al posto di un Führer, per essere assolti automaticamente.

Di questo, molti americani sono sempre stati perfettamente coscienti: Michael Walzer, nel 1981, scrisse: «Il bombardamento di Hiroshima fu un atto di terrorismo; il suo scopo era politico, non militare. L'obiettivo era uccidere un numero di civili sufficiente per scuotere il governo giapponese e costringerlo alla resa. Questo è l'obiettivo di ogni campagna terroristica». Oggi questa verità non solo è stata dimenticata, ma il solo discuterne espone all'accusa di antiamericanismo e di tradimento.

Non è sempre stato così: il 19 luglio 1946 il New York Times dedicò la prima pagina alla notizia che Einstein deplorava l'uso della bomba atomica. Un mese dopo, l'intero fascicolo del New Yorker era dedicato al reportage di John Hersey da Hiroshima, che per la prima volta metteva sotto gli occhi degli americani le conseguenze dell'esplosione sui vecchi, i bambini, le donne della città.

Le descrizioni di Hersey, quasi insopportabili nell'illustrare i dettagli delle sofferenze, provocarono un'ondata di emozione: il settimanale fu immediatamente esaurito e ristampato. Molti quotidiani ripubblicarono il testo, circa 180 cartelle, in forma integrale. In settembre, la radio Abc lo trasmise in quattro puntate. In ottobre, apparve come libro e il Book-of-the-Month Club ne distribuì centinaia di migliaia di copie gratis ai suoi iscritti. La Saturday Review of Literature definì «un crimine» Hiroshima e Nagasaki.

Occorreva una controverità, e in fretta. Fu a questo punto, nel 1946, (e non prima dell'uso dell'arma atomica) che nacque il mito del «milione di vite americane» salvate grazie alla resa del Giappone senza che un'invasione fosse necessaria. Da dove viene questa stima delle perdite, sempre citata da chi vuole giustificare l'uso dell'arma nucleare? Da qualche anno lo sappiamo, perché Gar Alperovitz, uno storico dell'università del Maryland, ha scritto pagine definitive su questo: fu opera di James Conant, presidente dell'università di Harvard.

Fu Conant, preoccupato per l'evoluzione in senso pacifista dell'opinione pubblica, a concepire l'idea di creare l'argomento delle «vite americane salvate» e, soprattutto, a farlo presentare dall'uomo che poteva farlo con maggiore credibilità: Henry Stimson, l'ex segretario alla guerra. L'operazione fu condotta con tutta l'abilità e le risorse di uomini che rappresentavano il cuore dell'establishment americano: la base fu un memorandum preparato da Harvey Bundy, ma al testo definitivo lavorarono anche George Harrison, John McCloy, Rudolph Winnacker e il figlio di Bundy, McGeorge (che poi sarebbe diventato il consigliere per la sicurezza nazionale di John Kennedy). Stimson accettò di firmare l'articolo, che apparve nel numero di febbraio 1947 di Harper's.

Conant insistette particolarmente per eliminare dal testo ogni riferimento ai contatti diplomatici prima e dopo la conferenza di Potsdam, e in particolare al problema delle garanzie per l'imperatore nei termini della resa giapponese. In questo modo l'unica questione veramente rilevante, e cioè se la fine della guerra poteva essere ottenuta senza Hiroshima e senza l'invasione, scompariva dal dibattito. Ciò che restava era l'alternativa tra l'uso dell'atomica e un milione di morti americani.

«Nessun dubbio»

Così reimpostato il dibattito, l'articolo di Stimson fu un successo straordinario: il New York Times non solo lo mise in prima pagina, ma scrisse in un editoriale che «non c'erano dubbi» sul fatto che «la bomba constrinse alla resa i giapponesi». Washington Post, St. Louis Post-Dispatch, Reader's Digest e centinaia di altri giornali e riviste lo ripubblicarono. Anche questo era stato accuratamente pianificato: i contatti del gruppo di autori nel mondo dell'editoria e del giornalismo erano sufficienti per far rimbalzare il testo ovunque, ma per facilitarne la diffusione, Harper's lo mise a disposizione senza chiedere diritti, cosa assolutamente inusuale negli Stati uniti. Per buona misura, Stimson chiese a Henry Luce, l'editore di Time e di Life, di dargli ulteriore diffusione sulle sue riviste, allora le più importanti d'America.

Oggi, 58 anni dopo, i termini del dibattito sono ancora gli stessi: chi non crede a questa versione dei fatti può trovare ospitalità su Nation o sul Bulletin of Atomic Scientists, ma certamente non sui grandi media o in televisione. La grande menzogna continua a funzionare.

 

FABRIZIO TONELLO    il manifesto 05/08/05

 

 

Un prete contro tutte le bombe
Don Albino Bizzotto e i suoi «Beati» hanno cambiato il modo di pensare di gran parte della chiesa e trasformato le regioni del Nord Est in un laboratorio nazionale di pace


Un prete strano, fuori dal comune. Un uomo mite che, con coraggio, offre un contraltare all'indifferenza. Un pacifista radicalmente nonviolento: da sempre. Un testimone di frontiera. Una vita spesa, da un quarto di secolo, per gli ultimi. Un simbolo, perfino suo malgrado. Don Albino Bizzotto è la figura che coincide ed incarna «Beati i costruttori di pace», il movimento di base esploso dentro la Chiesa del Triveneto nel 1985 e ancora in prima fila contro ogni guerra. Don Albino in questi giorni, frenetici come sempre, sta preparando le manifestazioni per i 60 anni dell'esplosione dell'atomica ad Hiroshima e Nagasaki. «Facciamo tutto con lo stesso spirito di condivisione e volontariato, che ci aveva spinto a marciare da Vicenza a Longare contro le testate nucleari e poi fino al `campo' di Comiso. Ci ostiniamo a difendere la speranza, a denunciare gli squilibri del mondo, a costruire ponti al posto delle trincee», spiega concitato fra una telefonata, una riunione, una pedalata e una preghiera.

Don Albino lo conoscono tutti come l'animatore instancabile dei «Beati», ma nessuno lo ha mai piegato a tradire la sua missione. E' fatto a modo suo. E non cambia più. «Predicava» le ragioni della pace dai microfoni di Radio Gamma5 senza concessioni alle nostalgie staliniste dei seguaci del generale Pasti. E' saltato sui binari ferroviari, quand'è scoppiata la guerra globale, al fianco di Luca Casarini anche se continua a preferire don Milani ai Disobbedienti. Adesso rilancia la battaglia contro il nucleare militare, nonostante la sua Chiesa abbia espunto la teologia della liberazione. Un prete scomodo. Un uomo convertito.

Racconta don Albino com'è cominciato tutto: «Nel 1980 mi è stato regalato un viaggio in America Latina: 40 giorni in Brasile e Ecuador. Ho visto la situazione nella baixada fluminense, vicino a Rio de Janeiro, con le case in un fiume di scolo e un tasso di violenza indescrivibile. Ma anche Riobamba con la più bella scuola del mondo, fatta per radio insieme agli indios. In Ecuador ho conosciuto la storia di monsignor Romero, che era stato assassinato in Salvador cinque mesi prima. In Italia si sapeva ben poco di lui. Quando è morto credo ci sia stato un piccolo lancio di agenzia: niente altro. Quel viaggio, di fatto, ha cambiato la mia vita. Non sono più riuscito ad andare in vacanza e la croce di cuoio che porto al collo viene da Quito. E' diventata il mio habitus».

Nel «covo anarchico»

Don Albino nasce a Cassola (Vicenza) nel 1939 da una famiglia contadina. Fin da bambino sente la vocazione, tant'è che a soli 23 anni è già prete diocesano. A Padova, insegna religione alle superiori: al liceo artistico di via Canal, scuola senza nome e con la fama di «covo anarchico», diventa l'interlocutore preferito di una generazione di ragazzi che al talento abbinano la rabbia. Don Albino tiene sempre la porta aperta nel piccolo appartamento che si affaccia su piazza dei Frutti. Casa di tutti nella stagione degli anni di piombo. Un via vai infinito di gente che aggiunge una sedia spaiata o discute stappando l'ultima bottiglia in comune. In Curia, quel prete troppo disponibile con i ragazzi e che si espone pubblicamente perfino sul referendum sull'aborto proprio non piace. E dal vescovo partirà un provvedimento disciplinare dopo l'altro: addio insegnamento, stipendio e pensione; la pecora nera sconta l'emarginazione della Chiesa ufficiale; in compenso, don Albino viene adottato dalle comunità di base, cattoliche e non.

Gli anni Ottanta, in Veneto, sono ancora segnati dalle trincee ideologiche: il processo 7 aprile, il Pci impermeabile al rinnovamento, l'Autonomia Operaia ancora organizzata. Don Albino «pacifica» con pazienza questo scenario paralizzante. «Abbiamo cominciato con un'azione di solidarietà con il popolo del Salvador, che in quel momento si trovava nell'occhio del ciclone, fino alla manifestazione in piazza, a Padova, il 23 marzo 1981. E' stata l'iniziativa che ha spezzato il clima degli anni di piombo. Mi ricordo, quella sera c'erano Raniero La Valle, Alberto Tridente e Marianella Garçia. Alcune persone sono venute in lacrime a ringraziarmi: era la prima volta che si manifestava insieme. In piazza tornava, finalmente, la gente comune: vecchi, giovani, donne, bambini». E' un successo per il Comitato Popolare Veneto per la pace, l'intuizione che don Albino aveva condiviso (fra gli altri) con Michele Di Martino, Alberto Trevisan, Flavio Lotti e Gianna Benucci. Si spalanca più di un varco alle bandiere dell'arcobaleno: in marcia lungo la Riviera berica, a fianco degli obiettori di coscienza e dei pionieri dell'obiezione fiscale alle spese militari, nelle prime manifestazioni contro i missili Cruise e Ss20.

Il «nuovo pacifismo» prende sostanza nel cuore del Veneto ancora democristiano. «E' partita una scintilla che ha portato alla prima grande manifestazione, dalla Caserma Ederle di Vicenza alla base Usa di Longare. Era il 30 agosto 1981. Subito dopo è stata la volta della Perugia-Assisi e il 24 ottobre la grandissima manifestazione nazionale», spiega don Albino. L'anticipazione della stagione di Comiso: «Nel 1982 il primo campo pacifista a Vittoria per preparare le azioni nonviolente davanti ai cancelli dell'aeroporto di Comiso l'estate successiva. Il 6 agosto 1983, di nuovo nell'anniversario di Hiroshima, contro l'installazione dei Cruise. E' stata la prima volta che, insieme a noi pacifisti, hanno manifestato fianco a fianco i ragazzi della Fgci e gli autonomi. Tutti insieme abbiamo preso le cariche della polizia. Il 25 settembre c'è stata un'altra azione formidabile a Comiso: invece di passare per le entrate centrali, siamo arrivati da un'altra parte. La polizia ci ha inseguito con gli idranti. Pioveva, era un giorno freddo: abbiamo preso acqua da sopra e anche da sotto. Saremo stati un migliaio, avevamo bloccato tutti gli accessi e con la polizia è iniziato uno scontro diretto: noi bloccati lì per terra sotto i teloni di nylon, loro con gli idranti. Se il getto ti arrivava sulle orecchie, te le faceva saltare».

Due anni dopo, don Albino si lancia in una nuova avventura. Con il comboniano Alex Zanotelli (il direttore di Nigrizia che aveva puntato l'indice su Craxi e Spadolini) e con il saveriano Eugenio Melandri lancia l'idea di «Beati i costruttori di pace». Riprendono il messaggio del Concilio, vent'anni dopo. Dal confine del Triveneto scrivono l'appello contro «l'aggressione che si fa crimine: gli armamenti, anche se non messi in opera, con il loro alto costo uccidono i poveri, facendoli morire di fame».

Sono trascorsi vent'anni. Era davvero un altro mondo. Il pacifismo radicale dentro la Chiesa rappresentava una vera rivoluzione. Don Albino riavvolge il nastro della storia dei «Beati» e rivela qualche retroscena: «Servivano promotori autorevoli per un simile appello. Il primo da cui sono andato è stato padre Germano Pattaro, il teologo veneziano dell'ecumenismo, molto amato, che era ammalato gravemente. Lui ha mostrato il testo a monsignor Luigi Sartori, presidente dei teologi italiani. E si sono aperte le porte. E' stato molto bello l'incontro con monsignor Alfredo Battisti, vescovo di Udine, che era stato il mio vicario generale a Padova e che conosceva bene la mia vita e le mie vicende ai margini della Chiesa. Mi ha detto: «Questi contenuti sono evangelici». Aderiva. Era fatta. Ma il nostro vero interlocutore era l'incaricato per la Commissione Giustizia e pace della Conferenza episcopale del Triveneto: il vescovo di Trieste, Lorenzo Bellomi. E lui aveva bisogno del placet del patriarca Marco Cé. Nel 1985, mi guadagnavo da vivere come manovale. Mi mandarono a chiamare in cantiere: Bellomi aveva telefonato e mi voleva parlare. Sono corso a casa e dall'altra parte del filo la voce: «Ti do l'adesione come commissione episcopale Giustizia e Pace del Triveneto». Così l'appello può cominciare a venir diffuso. Adesioni a valanga: 5 mila firme di preti, frati, suore. Si sono aggregati anche i laici. Alla fine, siamo arrivati a 15 mila adesioni».

Nel tempio della lirica

Il 4 ottobre 1986 i «Beati» organizzano il primo meeting all'Arena di Verona dal titolo «Pace: diritto ed urgenza dei popoli» con migliaia di partecipanti uniti dai colori dell'arcobaleno. Nel tempio della lirica scaligera, l'appuntamento si ripeterà: sfilano Rigoberta Menchù, Susan George, David Maria Turoldo a sostenere le campagne sul disarmo, contro l'apartheid. Con i «Beati» don Albino attraversa gli anni Novanta: in Bosnia e Kosovo, ma anche in Palestina, si concretizzano le «azioni di diplomazia popolare». Fra l'altro, le carovane de volontari dei «Beati» hanno garantito il servizio postale da e per Sarajevo dall'estate 1993 fino al gennaio 1996 consegnando complessivamente 800mila lettere e pacchi.

Si chiude il Novecento e i «Beati» (nel frattempo costituiti in vera e propria associazione) lasciano il segno in Africa. Febbraio 2001, l'azione di «Anch'io a Bukavu»: a Butembo, in Congo, oltre 200mila persone hanno accolto i partecipanti ad un altro piccolo grande «miracolo». Poi esplode la guerra globale: don Albino ritorna a sventolare la bandiera dell'arcobaleno. E' in buona compagnia: il «popolo della pace» invade piazze e balconi. E come ogni 6 agosto, l'anima dei «Beati» che non va più in vacanza si prepara ad ammonire: «Mai più Hiroshima».

 

ERNESTO MILANESI  il manifesto 06/8/05