LA LEZIONE MAGISTRALE
DI BENEDETTO XVI: UN RITORNO AL MEDIOEVO?
Il clamore
delle reazioni alla lectio magistralis di Benedetto XVI ha fatto passare sotto
silenzio alcuni passaggi del testo che forse sono non meno discutibili di quelli
che hanno irritato il mondo musulmano.
In estrema sintesi il papa, dopo avere affermato che l'islam ammette anche il
ricorso alla violenza per la diffusione della fede mentre la grande tradizione
cristiana, caratterizzata dal "vicendevole avvicinamento interiore" tra "la fede
biblica e l'interrogarsi sul piano filosofico del pensiero greco", rifiuta
l'imposizione della fede con la forza, ha aggiunto:
a) questa feconda simbiosi tra ragione e fede è stata purtroppo, già a partire
dal XVI secolo, compromessa in Occidente dai fautori della deellenizzazione del
cristianesimo, che contestano l'idea "che il patrimonio greco, criticamente
purificato, sia una parte integrante della fede cristiana";
b) la ragione moderna, separatasi dalla fede, si è così appiattita in uno
scientismo di stampo positivista, escludendo dal suo orizzonte le grandi
questioni metafisiche e i grandi interrogativi esistenziali, e ciò ha
determinato uno straordinario impoverimento dell'umano. È auspicabile, perciò,
una nuova intesa che restituisca alla fede una rilevanza culturale e consenta al
contempo "un allargamento del nostro concetto di ragione e dell'uso di essa".
Ora, tralasciando il fatto che anche nei libri sacri e nella prassi dei
cristiani ha trovato posto la violenza e che la concezione islamica della guerra
santa è più variegata di quanto non risulti dalle parole del papa, vorrei
soffermarmi sulle sue due ultime affermazioni.
a) La richiesta di deellenizzare il cristianesimo, e cioè di separare la
rivelazione biblica dalla razionalità greca, avanzata da Lutero e che
"dall'inizio dell'età moderna domina in modo crescente la ricerca teologica",
costituisce per il papa un errore capitale: il cristianesimo ne risulterebbe
snaturato, perché esso è proprio il frutto di quell'incontro - e di passaggio si
può notare come con queste posizioni è molto difficile che progredisca il
dialogo con i 'fratelli separati'! Ora, che il messaggio biblico sia stato per
secoli ripensato mediante categorie greche è un fatto indiscutibile, ma che esso
debba essere 'necessariamente' letto attraverso quelle categorie è tutto da
dimostrare.
Benedetto XVI ritiene che indizi di tale 'necessità' si trovino nella Bibbia
stessa, e ricorda "la visione di san Paolo, davanti al quale si erano chiuse le
vie dell'Asia e che, in sogno, vide un Macedone e sentì la sua supplica: ‘Passa
in Macedonia e aiutaci!' (cfr At 16,6-10) - questa visione può essere
interpretata come una ‘condensazione' della necessità intrinseca di un
avvicinamento tra la fede biblica e l'interrogarsi greco". Certo, con un po' di
buona volontà alla Bibbia si può far dire tutto, ma è giusto riconoscere che
oggi ben pochi esegeti riterrebbero verosimile tale 'interpretazione'!
Del resto, l'incontro fra religione biblica e pensiero greco si è attuato,
secondo il papa, già all'interno della storia della rivelazione: "Oggi noi
sappiamo che la traduzione greca dell'Antico Testamento, realizzata in
Alessandria - la "Settanta" -, è […] uno specifico importante passo della storia
della Rivelazione, nel quale si è realizzato questo incontro in un modo che per
la nascita del cristianesimo e la sua divulgazione ha avuto un significato
decisivo".
Per la verità, l'argomento mi sembra poco convincente: che il pensiero greco
abbia influito sulla redazione della 'tarda letteratura sapienziale' e che la
traduzione in greco dei 'Settanta' abbia avuto un ruolo notevole per la
diffusione del messaggio cristiano sono solo fatti, e trasformare un fatto in
una necessità teologica mi pare che implichi un evidente salto logico, o almeno
una lettura ingenuamente provvidenzialistica della storia. Se la fede biblica si
fosse diffusa in un contesto in cui la cultura prevalente fosse stata non quella
greca ma quella, per esempio, cinese, siamo sicuri che qualche agiografo non ne
sarebbe stato influenzato e che non avremmo avuto prontamente una traduzione in
cinese?
Se la sintesi con l'ellenismo, come sostengono oggi non pochi teologi, è stata
solo una delle possibili inculturazioni, va riconosciuta la ragionevolezza della
posizione di Lutero: tornare al messaggio originario, rifiutando un
cristianesimo grecizzato, o eventualmente 'cinesizzato'. È noto che i testi
classici sono soggetti nel corso dei secoli a varie interpretazioni, e talvolta
a vere e proprie deformazioni. Quando il progresso degli studi filologici
consente di rendersi conto che una tradizione interpretativa non è corretta, è
assolutamente comprensibile che si voglia tornare alle fonti. Come si cerca di
ricostruire, per esempio, l'autentico pensiero di Platone, così si tenta di
risalire all'originario messaggio evangelico. Perché il rigore critico, che
nessuno contesta nel campo degli studi filosofici o letterari, sarebbe
inapplicabile in campo biblico?
Ciò non significa che si debba condividere la diffidenza di Lutero nei confronti
della filosofia: è possibile, infatti, nutrire fiducia nella ragione filosofica
e al contempo prendere atto che determinate 'verità' metafisiche non sono
contenute nella rivelazione. Riconoscere il diritto degli esegeti di servirsi di
tutti gli strumenti che le scienze umane offrono per comprendere l'autentico
messaggio biblico e lasciare liberi i filosofi di dibattere questioni che sono
di loro esclusiva competenza: ecco, a mio avviso, una posizione davvero
razionale, che l'autorità ecclesiastica invece considera assolutamente
preoccupante.
Una lettura del testo biblico condotta col metodo storico-critico, infatti, può
mettere in discussione le fondamenta di impalcature teologiche che hanno
resistito per secoli e che hanno nutrito l'immaginario di sommi artisti come di
umili fedeli, e sono comprensibili i timori del papa di fronte a tale pericolo.
In effetti, l'impressione che suscita una simile operazione è quella di un
radicale impoverimento, spirituale e culturale, del patrimonio della fede
cristiana e di un cedimento alla moda di una ragione che, incapace di scrutare
le profondità metafisiche e teologiche che sarebbero contenute nelle pagine
della Bibbia, si rinchiude nei limiti angusti di un approccio grettamente
scientifico.
Ma forse si tratta solo di una prima impressione: forse il messaggio biblico,
liberato da categorie filosofiche ad esso estranee, risulta di una ricchezza e
di un'attualità sorprendenti. Il Concilio Vaticano II aveva dato fiducia agli
esegeti cattolici e la costituzione Dei Verbum aveva fatte proprie tante loro
acquisizioni, promuovendo una riscoperta di ciò che è essenziale nel messaggio
evangelico e che spesso era stato trascurato. Pochi anni dopo la chiusura del
Concilio, infatti, uno studioso cattolico scriveva: "Sono secoli e secoli che
non cerchiamo più in quei libri proprio quanto contengono di più decisivo e
prezioso"(P. Dacquino, Il messaggio salvifico della Bibbia, in Costituzione
conciliare Dei Verbum, Atti della XX settimana biblica, Brescia 1970, p. 277).
Negli ultimi decenni, invece, il rinnovamento degli studi biblici è stato
decisamente ostacolato e il magistero ha ribadito con forza l'intangibilità
della teologia tradizionale elaborata con categorie filosofiche: messa al bando
la libera ricerca, un rigido inverno ha fatto ovviamente seguito alla
promettente fioritura del periodo conciliare. E tutto ciò, paradossalmente, in
nome della difesa della ragione. La ragione, è bene precisare, di un'autorità
che pretende da una parte di stabilire l'esatto significato dei testi biblici
senza tener conto dei criteri scientifici vigenti nel campo dell'ese-gesi e
dall'altra di esortare il pensiero filosofico a recuperare la sua profondità…
mettendosi devotamente in ascolto delle grandi tradizioni religiose.
b) Benedetto XVI conclude, infatti, la sua analisi invitando i pensatori
contemporanei a superare quella concezione riduttiva che considera dotato di
rigore scientifico "soltanto il tipo di certezza derivante dalla sinergia di
matematica ed empiria" e ad aprirsi alla dimensione religiosa: "Per la filosofia
e, in modo diverso, per la teologia, l'ascoltare le grandi esperienze e
convinzioni delle tradizioni religiose dell'uma-nità, specialmente quella della
fede cristiana, costituisce una fonte di conoscenza".
Per la verità, ridurre la filosofia moderna e contemporanea a un angusto
scientismo ostile ad ogni metafisica sembra un po' eccessivo. Le vie di ricerca
imboccate dalla modernità mi pare che siano molteplici e non abbiano come cifra
caratterizzante quella suggerita dal papa. Piuttosto, se proprio si vuole
trovare un elemento che accomuna la maggior parte dei pensatori moderni, direi
che questo possa essere individuato nella progressiva rivendicazione
dell'au-tonomia della ragione nei confronti della fede e del magistero
ecclesiastico. Forse si può dire che l'epoca medievale termina proprio quando, e
nella misura in cui, si afferma un pensiero laico, che vuol procedere in maniera
rigorosa puntando solo sulle proprie forze e rifiutando una posizione ancillare
nei confronti della teologia.
Ciò non significa che la laicizzazione della filosofia abbia necessariamente
prodotto solo effetti positivi o che non ci si possa rammaricare della sfiducia,
oggi tanto diffusa, nei confronti della metafisica, specie se tale sfiducia
diventa un nuovo dogma. Non mi sembra, però, corretto presentare il pensiero
moderno semplicemente nell'ottica di una gretta riduzione delle possibilità
conoscitive dell'uomo, come fa il papa che, citando nella sua lezione Immanuel
Kant, sembra vedere in lui solo l'autore che ha espresso in modo classico "l'autolimitazione
moderna della ragione".
Il pensiero kantiano è in realtà animato proprio da una grande fiducia nella
ragione. Questa è, per Kant, il giudice ultimo a cui deve essere sottoposta la
credibilità di qualunque tesi e soltanto la fiducia in essa consente all'uomo di
uscire dallo stato di minorità, che consiste nella "incapacità di servirsi del
proprio intelletto senza la guida di un altro"(Risposta alla domanda: che cos'è
l'illuminismo?). E quest'affi-darsi alla propria ragione è, per Kant, importante
specialmente nel campo della religione, perché "la minorità in cose di religione
è fra tutte le forme di minorità la più dannosa e anche la più umiliante"(ivi).
In effetti, è proprio la ragione moderna, che rivendica la sua autonomia dalla
fede, il principale obiettivo polemico della lezione di Regensburg, come
sottolinea il card. Martino commentando i discorsi del papa in Germania:
"Nessuna religione ha niente da temere dalla Religione cattolica e dal suo Papa,
perché il nemico vero di tutte, il più insidioso e subdolo, è il paradigma
etico-culturale di una ragione senza Dio, che, pur affascinando per i suoi
successi scientifici e tecnici, minaccia […], con quel suo proporsi a partire
dal-l'etsi Deus non daretur, il patrimonio religioso di tutta l'uma-nità."(Card.
Renato Martino, La quaestio de veritate, il cristianesimo e le altre religioni.
I discorsi di Benedetto XVI in Baviera, in "L'Osservatore Romano", edizione
domenicale 17/9 06).
Mi pare che questa sia la lettura più corretta del pensiero di Josef Ratzinger,
che del resto da parecchi anni ormai indica nella separazione tra ragione e fede
la radice della crisi della civiltà europea e combatte il principio, chiave di
volta della cultura laica, dell'etsi Deus non daretur, il principio, cioè, per
cui l'etica pubblica va elaborata da cittadini maggiorenni, credenti o meno,
esclusivamente sulla base di argomentazioni razionali e prescindendo da
qualunque credo religioso.
A suo parere, infatti, l'Europa non è un continente nettamente afferrabile in
termini geografici ma piuttosto "un concetto culturale e storico"(Cardinale
Ratzinger, Europa. I suoi fondamenti spirituali ieri, oggi e domani, Biblioteca
del Senato, Sala Capitolare del Chiostro della Minerva, 13 maggio 2004), alla
cui formazione ha contribuito in maniera determinante la nascita del Sacro
Romano Impero, con le sue due autorità supreme, il papa e l'imperatore.
La sintesi medievale viene invece spezzata dalla rivoluzione francese, che
esclude la fede dalla sfera pubblica: "la fondazione sacrale della storia e
dell'esistenza statuale viene rigettata: la storia non si misura più in base ad
un'idea di Dio ad essa precedente e che le dà forma; lo Stato viene oramai
considerato in termini puramente secolari, fondato sulla razionalità e sul
volere dei cittadini"(ivi). L'Europa perde, così, la sua unità spirituale e
inizia quindi il suo declino, perché la fede non ha più un ruolo universalmente
riconosciuto e nello stesso stato convivono cristiani e non cristiani: "In
questa maniera sorge, con la fine del XVIII secolo e l'inizio del XIX, un nuovo
tipo di scisma, la cui gravità noi percepiamo ora sempre più nettamente. Esso
[…] viene delineato come divisione tra cristiani e laici"(ivi).
Porre fine a questo scisma riscoprendo i valori cristiani, che anche i non
credenti possono far propri perché sono intrinsecamente ragionevoli, è quindi la
condizione perchè la civiltà europea, liberandosi dell'eredità del marxismo, che
ha provocato la "dissoluzione della coscienza dei valori morali intangibili"
(ivi), possa competere con le altre: l'Is-lam, infatti, si rafforza perchè "è in
grado di offrire una base spirituale valida per la vita dei popoli, una base che
sembra essere sfuggita di mano alla vecchia Europa […]. Anche le grandi
tradizioni religiose dell'Asia […] si elevano come potenze spirituali di contro
ad un'Europa che rinnega le sue fondamenta religiose e morali"(ivi).
Con buona pace dei non cristiani, l'Europa, in sostanza, deve tornare a Cristo,
perché, come il futuro papa ricordava in un'intervista concessa a Vittorio
Possenti nel 2001, e rilanciata su Avvenire dopo la sua elezione, "la verità è
per tutti una sola, e se Cristo è la verità, allora riguarda tutti; allora è una
colpa occultarla agli altri"(11/5/2005). E questo ritorno a una visione
cristiana della vita richiede l'intervento dei pubblici poteri, ad imitazione di
quanto accade in molti Paesi musulmani: "Oggi l'opposizione più forte al
cristianesimo proviene dall'Europa e dalla sua filosofia postcristiana, mentre
nei Paesi extraeuropei la fede trova un sostegno sempre più forte"(ivi). In
Vaticano si auspica, quindi, un sostegno al cristianesimo da parte degli Stati
europei, i cui Parlamenti sono infatti spesso sollecitati dalla gerarchia a
rifiutare una 'filosofia postcristiana', che laicamente riconosce la legittimità
di differenti concezioni morali e religiose, e a salvaguardare i valori
intangibili della propria tradizione vietando per legge, per esempio, l'aborto o
l'eutanasia.
La lezione di Regensburg, dunque, è perfettamente coerente con i precedenti
discorsi del papa, che infatti si è rammaricato per aver dato luogo a
interpretazioni che ritenevano le sue parole offensive nei riguardi dell'Islam,
ma non ha ritrattato minimamente le proprie tesi. A Regensburg, ancora una
volta, egli ha colto l'occasione per riaffermare la sintesi di fede biblica e
filosofia greca che caratterizza la tradizione cristiana (o meglio cattolica),
nella convinzione che "questo incontro, al quale si aggiunge successivamente
ancora il patrimonio di Roma, ha creato l'Europa e rimane il fondamento di ciò
che, con ragione, si può chiamare Europa".
Queste idee che sono alla base della strategia del pontificato di Benedetto XVI
mi pare poco probabile che possano avere effetti durevoli e positivi. Presentare
un cristianesimo ellenizzato come fondamento dell'identità dell'Occidente,
infatti, non favorisce certo il dialogo con le altre civiltà, rallenta il
rinnovamento religioso promosso dal Vaticano II e allontana ulteriormente il
magistero dalle correnti più vive del pensiero laico, che difficilmente
accetteranno quell'invi-to all'allargamento della ragione che in realtà ha il
sapore di un ritorno della filosofia alla sua condizione ancillare.
L'Europa che il papa ha in mente è in sostanza quella medievale, in cui le
verità insegnate dalla chiesa erano il punto di riferimento essenziale per la
cultura, per la politica e per la vita degli abitanti del continente che non a
caso si chiamava 'Christianitas'. Il progetto di un simile ritorno al medioevo
credo che sia poco realizzabile, ma per sconfiggerlo è necessario l'impegno di
chi ha a cuore le conquiste del pensiero laico e mi auguro perciò che gli
intellettuali europei vogliano far sentire la loro voce in difesa dei valori
della modernità.
Elio Rindone