La legge del branco

 La sicurezza è l'ossessione del momento. Il centrodestra ne ha fatto il proprio cavallo di battaglia, il nuovo governo l'ha messa al primo punto del suo programma, la politica tutta se ne occupa a piene mani, televisioni e giornali se ne riempiono. Poco importa che le statistiche dicano che non c'è alcuna emergenza. Quel che conta è la percezione della paura, l'esternalizzazione sul «diverso» delle insicurezze che contornano la vita e l'incubo di una prossima decadenza. Vale per tutti, persino di più per chi i privilegi li vive guardandoli in tv, attraverso i lustrini degli altri.
La cronaca si incarica ogni giorno di ribadire il concetto: la violenza è lo stato di natura in cui siamo costretti. Ma non tutte le violenze hanno pari dignità nell'elaborazione mediatico-politica: solamente quelle attribuite all'estraneo diventano emergenza, le altre - le nostre - sono semplice devianza. E' così solo perché le prime sono più facili da affrontare, rappresentano qualcosa di alieno, che non ci chiama in causa, che si può facilmente scaricare fuori, che si può affrontare senza mettere in discussione il senso della «comunità nazionale» (o locale). Poi si partoriscono norme e aggravanti di legge che violano l'unicità del diritto, come quelle di cui si parlerà oggi al consiglio dei ministri.
La cronaca, a ben guardare, è però crudele. Quella di ieri ci rimanda un episodio avvenuto quattro anni fa nella civilissima e ricca Toscana, tra Lucca e Montecatini. Una prolungata violenza di gruppo (maschile) ai danni di una quattordicenne. Se ne riparla perché si deve decidere se rinviare a giudizio i 23 minorenni che per dieci mesi hanno abusato di una ragazzina sudamericana adottata da una famiglia del posto: scopate di gruppo, ripetute e filmate. Con il «consenso» della ragazza, è la tesi della difesa. Tesi già accolta da un giudice che ha incredibilmente assolto i maggiorenni coinvolti nella «lunga festa». Quale consenso possa dare una bambina di fronte al gruppo maschile che la blandisce fino a costringerla al consumo del proprio corpo è difficile da capire. Se non nell'assurdo del branco che minaccia di espellere dal «gruppo» chi si nega, nel ricatto di un filmato da esibire come prova «che quella è una puttana». E nella violenza di una relazione basata tutta sulla forza del maschile che si impone sul femminile per esorcizzare le proprie angosce, per sfogare la sua tendenza al dominio.
La cronaca si ferma qua. Seguirà un proscioglimento o una condanna. Con cui la comunità assolverà se stessa, non guarderà in faccia il proprio degradarsi in relazioni di puro consumo: conquistate con i soldi o con la forza. Non fa differenza. Perché la violenza diventa un problema politico solo se c'è uno straniero a cui farla pagare. Se riguarda uno di noi è solo devianza criminale: la comunità è salva (e può sempre perdonare i figli reietti), la politica può continuare a guardare il dito e non la luna, la forza rimarrà al governo delle relazioni umane. Nel legittimo esercizio delle sue funzioni.

 

Gabriele Polo      Il manifesto 21 /05/08