La legge che ordina il silenzio stampa

 

Se la legge sulle intercettazioni verrà approvata nel testo in discussione al Senato, sarà fatto

un passo pericoloso verso un mutamento di regime. I regimi non cambiano solo quando si è di

fronte ad un colpo di Stato o ad una rottura frontale. Mutano pure per effetto di una erosione

lenta, che cancella principi fondativi di un sistema. Se quel testo diverrà legge della Repubblica,

in un colpo solo verranno pregiudicati la libertà di manifestazione del pensiero, il diritto di

sapere dei cittadini, il controllo diffuso sull'esercizio dei poteri, le possibilità d'indagine della

magistratura.

 

Ci stiamo privando di essenziali anticorpi democratici. La censura come primo

passo concreto verso l'annunciata riforma costituzionale, visto che si incide sulla prima parte

della Costituzione, quella dei principi e dei diritti, a parole dichiarata intoccabile? Se così sarà,

dovremo chiederci se viviamo ancora in uno Stato costituzionale di diritto.

Questa operazione sostanzialmente eversiva si ammanta del virtuoso proposito di tutelare la

privacy. Ma, se questo fosse stato il vero obiettivo, era a portata di mano una soluzione che non

metteva a rischio né principi, né diritti. Bastava prevedere che, d'intesa tra il giudice e gli

avvocati delle parti, si distruggessero i contenuti delle intercettazioni relativi a persone estranee

alle indagini o comunque irrilevanti; si conservassero in un archivio riservato le informazioni di

cui era ancora dubbia la rilevanza; si rendessero pubblicabili, una volta portati a conoscenza

delle parti, gli atti di indagine e le intercettazioni rilevanti.

 

Su questa linea vi era stato un largo consenso, che avrebbe permesso una approvazione a

larga maggioranza di una legge così congegnata.

Ma l'obiettivo era diverso. La tutela della privacy è divenuta il pretesto per aggredire l'odiata

magistratura, l'insopportabile stampa. Non si vuole che i magistrati indaghino sul "mostruoso

connubio" tra politica e affari, sull'illegalità che corrode la società. Si vuole distogliere l'occhio

dell'informazione non dal gossip, ma da vicende che inquietano i potenti, dal malaffare. Se

quella legge fosse stata approvata, non sarebbe stato possibile dare notizie sul caso Scajola,

perché si introduce un divieto di pubblicazione che non riguarda le sole intercettazioni.

In un paese normale proprio quest'ultima vicenda avrebbe dovuto indurre alla prudenza. Sta

accadendo il contrario. Al Senato si vuole chiudere al più presto. E questo è coerente con

l'affermazione del presidente del Consiglio, secondo il quale in Italia "c'è fin troppa libertà di

stampa". Quale migliore occasione per porre rimedio a questo eccesso di una bella legge

censoria?

 

Scajola, infatti, è stato costretto a dimettersi solo dalla forza dell'informazione. Una situazione

apparsa intollerabile. Ecco, allora, il bisogno di arrivare subito ad una legge che interrompa fin

dall'origine il circuito informativo, riducendo le informazioni che la magistratura può raccogliere,

impedendo che le notizie possano giungere ai cittadini prima d'essere state sterilizzate dal

passare del tempo. Non si può tollerare che i cittadini dispongano di informazioni che

consentano loro di non essere soltanto spettatori delle vicende politiche, ma di divenire

opinione pubblica consapevole e reattiva.

 

STEFANO RODOTÀ     La Repubblica 8-5-2010

 

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