La lectio magistralis di papa Ratzinger

La lectio magistralis tenuta dal papa all'università di Regensburg ha sollevato grande scalpore per l'improvvida citazione delle parole dell'imperatore bizantino Manuele II Paleologo, alla fine del quattordicesimo secolo, che così aveva giudicato Maometto: «Di nuovo, ha portato soltanto cose cattive e disumane, come la sua direttiva di diffondere, per mezzo della spada, la fede che egli predicava». Una valutazione ingiusta data a proposito del problema dibattuto, «rapporto tra religione e violenza», non contraddetta a quanto sembra dal papa nonostante la sua palese genericità.
Di fatto tutto ciò appare puramente accidentale nella sua lezione universitaria che non per nulla reca il titolo «Fede, ragione e università». Benedetto XVI disquisisce - mi sembra questa la parola esatta - circa il rapporto tra fede e ragione esaltando le risorse e le capacità della ragione umana e affermando che la fede non è contro la ragione. Delle parole controversistiche - l'imperatore Manuele II Paleologo dialogava, non senza toni polemici, con un erudito persiano - in realtà al centro della sua lezione egli colloca l'affermazione seguente: «Non agire secondo ragione è contrario alla natura di Dio».
Tradotto in termini positivi, agire secondo ragione è conforme alla natura di Dio. Un'evidenza per l'imperatore cresciuto nella filosofia greca; non così per la mentalità islamica che sottolinea l'assoluta trascendenza di Dio, non legato a nulla, neppure alle esigenze della ragione umana. È questo che dà l'avvio alle argomentazioni del papa tese a mostrare il carattere provvidenziale dell'incarnazione culturale del cristianesimo nella filosofia greca del logos che «significa insieme ragione e parola - una ragione che è creatrice e capace di comunicarsi ma, appunto come ragione». E il papa naturalmente cita l'incipit del vangelo di Giovanni: «In principio era il logos» e così lo commenta: «La fede biblica, durante l'epoca ellenistica, andava interiormente incontro alla parte migliore del pensiero greco».


La ragione sul trono
Un processo di ellenizzazione che mette sul trono la ragione, visto che il Dio cristiano si definisce appunto come ragione, e che il papa valuta come normativo: «un dato che ci obbliga anche oggi». Per questo ritiene deviante l'«impostazione volontaristica», iniziata con Duns Scoto e proseguita, possiamo aggiungere, dal nominalismo di Occam. Ancor più secondo Benedetto XVI a tale «patrimonio greco, criticamente purificato» - non dice come, ma sembra sottintendere «dalla fede», così si è espresso altre volte - «si oppone la richiesta della dis-ellenizzazione del cristianesimo», cominciata dalla Riforma del XVI secolo e presente «in modo crescente» nella ricerca teologica dell'età moderna, sull'onda del protestantesimo liberale dei secoli XIX e XX, antidogmatico e sostenitore di un cristianesimo ridotto a pura normativa etica.
La terza onda della dis-ellenizzazione che interessa da vicino i nostri tempi, continua Benedetto XVI, è l'esaltazione unilaterale della «ragione positivista». Il papa le addebita di abdicare ai suoi «interrogativi fondamentali» e di rifiutare di aprirsi all'ampiezza del suo sguardo che va ben oltre la conoscenza empirica affrontando «gli interrogativi propriamente umani», quelli del «da dove» e del «verso dove». In conclusione esorta i professori di teologia dell'università di Regensburg a restare fedeli «a questo grande logos, a questa vastità della ragione nel dialogo delle culture».
Dubbi e perplessità


Mi sembra che due sono i punti di vista di questa lezione del papa che sollevano dubbi e perplessità. Il primo: appare unilaterale comprendere l'incipit del vangelo di Giovanni: «In principio era il logos» in chiave ellenistica e intendere logos come ragione. In realtà il riferimento fondamentale dell'evangelista è alla tradizione ebraica della parola comunicativa di Dio al suo popolo per bocca dei profeti. Giovanni qui afferma che Gesù non è una parola divina comunicata agli uomini, ma l'ultimo e decisivo disvelamento del volto di Dio. Non siamo propriamente nel campo della ragione, bensì del messaggio: così sembra doversi intendere il logos che, precisa più avanti il vangelo di Giovanni, «si è fatto 'carne' - essere terrestre caduco e mortale - e ha posto la sua tenda in mezzo a noi» (1,14). L'ellenizzazione del cristianesimo è avvenuta più tardi come forma culturale consona a un mondo permeato dalla ricca eredità greca. Dunque non è stata la prima e neppure l'unica inculturazione: per esempio oggi la ricerca storica più avvertita si rifiuta di definire semplicemente un ellenista Paolo di Tarso, teologo di grande spessore che ha tradotto il vangelo tradizionale nei diversi ambienti in cui si era fatto missionario. È piuttosto un pensatore di due mondi culturali del tempo, ebraico e greco, che oltre tutto non erano per nulla due universi culturali distanti.
Ne segue che appare abbastanza sorprendente nelle parole del papa la chiusura, in linea di principio, alla prospettiva di altre inculturazioni della fede cristiana. Infatti egli giudica severamente quanti oggi amano dire che l'inculturazione ellenistica del cristianesimo è solo la prima e che «il semplice messaggio del Nuovo Testamento» postula di essere di nuovo inculturato nei diversi ambienti in cui si presenta; «Questa tesi non è semplicemente sbagliata; è tuttavia grossolana e imprecisa». Ma in questo modo Benedetto XVI non finisce per scrivere un'ipoteca della ragione greca sulla fede cristiana e innalzare il pensiero «logico» a norma escludente altri tipi di conoscenza dell'uomo capace di ricercare una certa, sempre limitata, eppure feconda comprensione del senso del credere? Che cosa direbbero i mistici, su tutti mastro Eckhart, di questo esclusivismo?
(*) storico delle origini cristiane

 

Giuseppe Barbaglio    Il manifesto 19/09/06