La guerra leghista per l'egemonia culturale

Gli attacchi leghisti a quanti nella Chiesa sono lontani dalle posizioni del Carroccio su temi come
immigrazione, islam, libertà religiosa, rivelano un conflitto dal nocciolo duro, difficilmente
componibile anche in presenza di retromarce bossiane. Ad esempio, nella dura critica
all'arcivescovo di Milano il ministro Calderoli ha affermato che Tettamanzi «con il suo territorio
non c'entra proprio nulla. Sarebbe come mettere un prete mafioso in Sicilia». Al di là dell'inaudito
paragone, sono parole che rivelano il vero oggetto del contendere. E che fanno capire perché ormai
a Nord, la Lega viva la Chiesa, almeno quella che si oppone apertamente a derive xenofobe e
tramonto del solidarismo, con crescente insofferenza.

La posta è l'egemonia culturale sul territorio. La Lega è storicamente insediata laddove, in passato,
il voto bianco otteneva percentuali altissime: Varesotto, Brianza, Valli bergamasche, Pedemontana
veneta. Da qui la necessità, prima per radicarsi, poi per espandersi, di riplasmare in direzione
dell'etnicizzazione della religione il senso comune locale. Nel momento in cui fa sentire la sua voce
dissonante su temi come immigrazione, pluralismo religioso, discriminazione, la Chiesa, tanto più
se autorevole per azione e guida, come quella ambrosiana, storicamente "chiesa di popolo" attenta
alla dimensione sociale e caritativa, contrasta palesemente questo progetto. Le sue parole, e
soprattutto le sue azioni, cozzano contro quelle di un partito che, abbandonato il folcloristico
neopaganesimo delle origini, rilegge la tradizione cristiana in modo del tutto indifferente ai
contenuti del Vangelo. Un cristianesimo senza Cristo, degradato a sorta di religione civile padana:
ciò che Robert Bellah chiamerebbe il «basso continuo» o «sottofondo religioso» non della nazione
ma di un gruppo particolare, in questo caso della comunità immaginaria della Padania. Una
religione senza Chiesa, almeno quella postconciliare. Un cristianesimo iperpolitico, in cui la Croce
è essenzialmente un'arma identitaria da impugnare conto gli "altri". Un cristianesimo ridotto a
cultura locale, privo di dimensione universale.

A Nord la Chiesa è percepita dalla Lega come l'unico, reale, concorrente alla sua egemonia. Essa
contende al Carroccio un'immagine del territorio e delle relazioni sociali che lo caratterizzano.
Contesa che induce la Lega a distinguere tra vescovi "buoni", quelli che "non fanno politica" e
quelli "cattivi", che la fanno. Laddove "fare politica" significa esprimere posizioni diverse da quelle
"padane". Uno scontro che si nutre di conflittualità quotidiana nei diversi territori in cui Lega e
Chiesa sono radicate. Non solo, dunque, nella grande diocesi milanese ma anche nel trevigiano,
feudo verde per eccellenza, dove da anni l'intransigentismo leghista mette sotto accusa i cosiddetti
"preti rossi", sacerdoti "rei" di vivere pienamente, nella loro pratica, il messaggio evangelico.
Una sfida, quella con la Chiesa, che il Carroccio innalza ulteriormente facendosi portatore di una
versione, in salsa padana, del cesaropapismo: almeno nella germanica variante medievale in cui si
designava persino il candidato all'elezione papale. L'obiettivo delle incessanti critiche leghiste è,
infatti, la delegittimazione delle guide episcopali ritenute ostili o non omogenee;
e, laddove, si
prospettino avvicendamenti, come nel caso milanese – Tettamanzi è dimissionario per i limiti d'età
ma in proroga – quello di determinare condizioni ambientali tali che, a essere nominati, siano capi
delle diocesi più vicini al "comune sentire del territorio". In ragione di questa duplice dimensione,
che ha a che fare con gli orientamenti pastorali ma anche con la supremazia nelle rispettive sfere
d'azione, lo scontro tra Chiesa e Lega è, ciclicamente, destinato a riprodursi. Anche se, proprio
perché interessato a tutte le dimensioni del potere locale, il Carroccio continuerà a offrire a Sacra
Romana Chiesa uno scambio politico a livello nazionale su temi sensibili quali bioetica, famiglia,
aborto, perseguendo una linea che alternerà blandizie a epiteti. Per ottenere, a Milano come altrove,
la nomina di vescovi graditi, un po' più "padani" o, quantomeno, più silenti. Una prospettiva
deleteria per la Chiesa che, in tal caso, vedrebbe svuotata la sacra potestà dei suoi pastori e il senso
di parte rilevante del suo messaggio in nome del compromesso con la politica.

Renzo Guolo     la Repubblica  20 dicembre 2009